Alessandra Ziniti, La Repubblica 20/7/2014, 20 luglio 2014
NEL CARCERE DEGLI SCAFISTI “NOI, RECLUTATI DAI TRAFFICANTI PER 5MILA EURO A VIAGGIO”
RAGUSA I tre senegalesi a cui era stato affidato il barcone arrivato due settimane fa con 45 cadaveri asfissiati nella stiva ancora non si sono resi conto che da questa cella usciranno tra non meno di 15 anni. Il loro destino era unito a quello dei loro compagni di viaggio prima che cedessero alle lusinghe dei trafficanti: poi è bastato poco per farli passare da vittime a carnefici.
Scafisti per caso. A Ragusa c’è un carcere pieno di gente come loro, sono 68, solo quelli entrati dall’inizio dell’anno. Non c’è più posto in questa piccola casa circondariale di provincia che la nuova emergenza sbarchi ha trasformato in un carcere di disperati. Perché non sono loro, che ora rischiano pene pesantissime, i veri trafficanti di uomini, non sono loro ad incassare quelle cifre da capogiro (da 500.000 euro a un milione di euro) che frutta ogni viaggio. Loro, come Safih, il tunisino arrestato ieri dagli uomini della squadra mobile per aver condotto l’ultimo barcone arrivato a Pozzallo con un carico di 251 persone, spesso sperano di fare il colpo della loro vita, accecati da quel miraggio dei 5.000 dollari promessi dai trafficanti. E si ”arruolano”, come ha raccontato Safih. «Sono andato in Libia perché sapevo che li cercano persone per condurre le barche e mi sono proposto. Io sono figlio di pescatore e un po’ conosco il mare. Avrei guadagnato quanto guadagno di solito in due anni».
Metà subito e metà, con i Money transfer, a missione compiuta. Quasi sempre sono queste le condizioni imposte dai libici, i veri organizzatori del viaggio che cedono il comando della barca al “capitano” e al suo equipaggio solo dopo aver fatto salire tutti a bordo e aver distribuito i migranti al loro posto sulla barca a seconda della tariffa pagata: meno per chi sta giù in stiva, a rischio di asfissia, più per gli altri. Proprio la paura di non ricevere il saldo a destinazione, tre settimane fa, indusse i tre senegalesi del barcone della morte a rifiutare l’aiuto di un motopesca tunisino che li aveva agganciati quando erano ancora a poche miglia dalla costa libica. Se fossero stati soccorsi subito i 45 poi morti asfissiati nella stiva si sarebbero salvati, ma Karim e i due suoi amici hanno confessato: «Girammo il timone e andammo via, dovevano soccorrerci gli italiani in acque internazionali, se no non ci avrebbero pagato il resto dei soldi».
Gli scafisti rinchiusi nel carcere di Ragusa si incontrano ogni giorno in cortile nell’ora d’aria. Sono per lo più tunisini ed egiziani anche se da un po’ di settimane anche i poverissimi del centro Africa accettano il lavoro. «Ci avevano detto che era facile — racconta Ahmed, 30 anni, eritreo — che dopo 30 miglia, quindi cinque o sei ore di navigazione, saremmo stati in acque internazionali. Dovevamo avvertire i libici, fingere un guasto e farci soccorrere. Qui mi dicono che io sono uno scafista, ma non è cosi. Io ero in un bar in Libia e cercavo anch’io un passaggio per l’Italia, ho incontrato un procacciatore, mi ha chiesto se conoscevo il mare, io ho detto di sì e mi ha dato 1.500 dollari, l’altra metà me li avrebbero mandati all’arrivo».
Sono quasi tutti scafisti “per caso” quelli che nel carcere di Ragusa aspettano di essere processati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma spesso anche per sequestro di persona e omicidio. Quasi tutti giovanissimi e figli di pescatori. Proprio come quei dodici babyscafisti, di età compresa tra i 13 e i 15 anni, che sono rinchiusi nel carcere dei minorenni di Catania. Gli organizzatori dei viaggi li vanno a cercare nei villaggi più poveri delle coste egiziane, dove le famiglie non hanno i soldi per pagare il biglietto della traversata ai loro figli. «Dateceli — dicono ai genitori — devono solo guidare un gommone per poche miglia e distribuire acqua e cibo e ve li facciamo arrivare in Italia gratis». Abd el Karim, 15 anni, egiziano, in carcere piange tutti i giorni: «Sono l’unico maschio della famiglia, a casa ho otto sorelle. I miei genitori mi hanno detto: “Vai, quando arrivi in Italia, ti porteranno in un comunità, ti insegneranno la lingua, ti manderanno a scuola. Poi impara un lavoro e manda i soldi a casa. Quando siamo partiti dalla spiaggia in Libia mi hanno dato 100 euro e mi hanno messo alla guida di un gommone. Io pensavo di dovere portare le persone per poche miglia ad una barca grande ma non c’era nessuna barca, il gommone si è fermato, alcuni sono morti... Ora che ci faccio qui. Voglio tornare a casa».