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 2014  luglio 20 Domenica calendario

I NUOVI CONFINI DELLE CIVILTÀ


Samuel Huntington aveva ragione. Francamente, però, non c’è granché da rallegrarsi. Più di vent’anni dopo il suo famoso articolo su «Foreign Affairs» (1993), seguito da un celebratissimo libro, il mondo si sta adattando alla sua previsione: nel dopo Guerra Fredda, sono la geografia, le identità culturali e le grandi civiltà le forze potenti che producono divisioni e coesione, nuove alleanze e conflitti. Che disegnano le nuove mappe del pianeta.
Ci sono voluti due decenni per poterlo dire con certezza, ma non solo la Storia non è finita: anche la Geografia è più che mai in forma. Nelle università proliferano le nuove carte geografiche: cancellano i vecchi confini e immaginano il pianeta ridisegnato secondo linee culturali, linguistiche, storiche, religiose. Soprattutto, sul terreno prendono spazio e territorio califfati, si creano nuovi assi di alleanza, Stati crollano: i confini disegnati in Medio Oriente alla fine della Prima guerra mondiale e in Africa negli anni della decolonizzazione sono sempre più instabili, sotto i colpi di guerre di religione, di tensioni etniche, di rivendicazioni storico-nazionaliste. Nel mondo si rifanno gli atlanti, c’è da preoccuparsi.
Nel suo libro fondamentale del 1996, The Clash of Civilizations and the Remaking of the World Order , Huntington individua cinque tendenze del futuro. Per la prima volta nella storia — dice — le politiche globali sono multipolari: la modernizzazione non significa necessariamente occidentalizzazione. Secondo: l’influenza relativa dell’Occidente declina di fronte alle civiltà asiatica e musulmana (non era ovvio a metà Anni Novanta con l’Ovest trionfante sull’Est comunista). Terzo: il nuovo ordine mondiale si sta riorganizzando attorno alle civiltà, i diversi Paesi tendono ad aggregarsi con al centro un leader o un gruppo che è il cuore dell’entità storico-culturale. Quarto: la visione universalista dell’Occidente si scontra sempre di più con le altre, in particolare con quelle dell’islam e della Cina. Quinto: la sopravvivenza dell’Occidente dipende dalla capacità dell’America di riaffermare la propria identità e dall’accettazione dell’idea che la sua civiltà non è universale ma unica e quindi va difesa dalle sfide esterne. Corollario: una guerra globale tra civiltà si può evitare solo se i leader politici coopereranno in una logica di accettazione delle diversità; il che non è al momento scontato.

Di fronte agli eventi geopolitici in corso, si può forse rifiutare l’analisi di Huntington, si può discutere la quinta tendenza: ma non si può dire che i fatti abbiano smentito uno solo dei suoi ventennali cinque punti cardinali.
Il ritorno della geopolitica, dopo la fase che si può definire della «globalizzazione americana» seguita al crollo dell’Unione Sovietica, è forse il fenomeno più dirompente degli ultimi anni e degli ultimi mesi. Il Medio Oriente è il teatro dove è più evidente: il cuore stesso della rinascita delle vecchie civiltà. Complessivamente inteso, il territorio dell’islam corre dall’Atlantico per tutto il Nord Africa, compresa parte della Somalia, passa per la Penisola Arabica, sale sull’altopiano dell’Iran e arriva ai confini della Cina e dell’India, con una propaggine popolosa (e ideologicamente moderata) in Indonesia. Ma nella logica di chi divide il mondo secondo plateau di civiltà, come gli estremisti islamici, all’interno stesso di una grande famiglia si creano differenziazioni, divisioni, conflitti, come quelli tra sciiti e sunniti.
La mappa, nella pagina accanto, della parte orientale del Medio Oriente, disegnata dal tenente-colonnello americano Ralph Peters nel 2006 e usata al Pentagono di Washington e alla Nato, dà l’idea dei cambiamenti statuali e di confine possibili nel vasto mondo islamico, immaginati a partire dai conflitti intra-religiosi in essere. La Penisola Arabica viene completamente ridisegnata: attorno al regno saudita, ridimensionato e al quale è quasi precluso l’accesso al mare, nasce uno stato islamico sacro con al cuore la Mecca; lo Yemen si espande e così pure la Giordania. L’Iraq si divide in tre, una parte sciita al confine con l’Iran, una parte sunnita e, a Nord, un Grande Kurdistan con territori presi da Iraq, Siria e Turchia. E poi nasce il Belucistan, a scapito soprattutto del Pakistan. Non è scritto da nessuna parte che succeda così: che la tendenza del momento spinga verso qualcosa del genere, però, è difficile da negare.
Le tensioni mediorientali, inoltre, arrivano fino all’Europa, soprattutto nella Penisola balcanica. Che in questo momento è un confine geopolitico doppiamente delicato. Non solo per i venti dell’islam ma anche per la nuova assertività della Russia di Putin che sta cercando di riconquistare uno spazio per la civiltà di carattere slavo che prende tutte le Russie, dallo stretto di Bering fino ai confini dell’Europa. In una mappa (preveggente) del suo libro, Huntington fa passare un confine quasi invalicabile tra la faglia slava, o meglio cristiano-ortodossa, e la faglia occidentale: attraverso la Bielorussia, dividendo tra Est e Ovest l’Ucraina e giù fino a spaccare in due la Romania e a lasciare la Bulgaria fuori dalla sfera occidentale. Così come fuori resta la Serbia, oggi attraversata da tensioni e da instabilità provocate dalle influenze provenienti dal Medio Oriente e da Mosca, proprio nel momento in cui cerca di avvicinarsi alla Ue.
Nell’Estremo Oriente e nel Mare Cinese Meridionale, è l’emergere della Cina e della sua propensione ad affermare la propria civiltà nella regione a proporre il «modello Huntington». E con esso a sollevare tensioni con il Giappone e con il Sud-Est asiatico diviso tra islam e buddismo. In prospettiva, forse dispute anche con l’India, in questo caso più per ragioni commerciali e di protezione delle rotte marittime nell’Oceano Indiano che per questioni di egemonia di civiltà. In forme diverse, decisamente più pacifiche ma non meno sorprendenti, spaccature di carattere culturale sono apparse di recente anche in Europa: sia essa una differenza più legata al ceppo linguistico d’origine o alla religione, fatto sta che la cosiddetta divisione tra Paesi del Nord e del Sud della Ue non manca di caratteri culturali e religiosi, pur all’interno di una indiscutibile appartenenza all’Occidente. Insomma, se oggi vogliamo tracciare la mappa di come sarà il mondo tra cinquant’anni, è probabilmente dalla geografia, dall’etnia, dalla cultura, dalla storia e dalla religione che dovremmo partire: dallo scontro di civiltà.

Il ritorno potente della geopolitica, e con essa delle mappe, è il segno della divisione dell’umanità. Da sempre, e oggi non è diverso: la tecnologia e la globalizzazione dell’economia hanno cancellato i confini commerciali e di informazione ma non sembrano avere indebolito i sensi di appartenenza, gli Stati e i nazionalismi. Concettualmente, è un ritorno al passato, alla geopolitica intesa come ricerca della supremazia tra Stati. Ed è l’affermazione della visione «realista» delle relazioni internazionali, di chi guarda le mappe e apprezza le civiltà e le loro radici più delle idee e degli ideali: con basse aspettative, perché di fronte ai corsi lunghi della storia non moltissimo si può fare. Un approccio che oggi ha fondamento nei fatti e che ha preso nuova forza anche dal fallimento dell’intervento americano in Iraq, evocato dalla scuola di pensiero opposta, idealista. Ma anche il realismo, soprattutto un realismo geopolitico estremo che si nutre di inevitabilità storiche, può portare disastri.
La Geopolitik , con le sue mappe, è un’elaborazione nata in Germania, Paese ossessionato dalla geografia e dallo spazio, non avendo confini forti naturali a Ovest come a Est. Un sentiero ottocentesco che porta alla Lebensraum , la ricerca dello spazio vitale, e poi alle elaborazioni di Karl Haushofer, il «geopolitico del nazismo». Già nel 1953, Isaiah Berlin criticava a fondo il «realismo» dell’inevitabilità storica: lo riteneva codardo e immorale perché dietro al paravento delle forze «impersonali» — geografia, ambiente, etnia, storia, cultura, religione — cerca di determinare la politica eliminando il ruolo delle persone, delle loro scelte, della loro morale. E dunque delle istituzioni che l’umanità si dà e che sono il cuore del rapporto tra la civiltà e la realizzazione dell’individuo.
Le nuove mappe che si stanno immaginando nelle università e quelle che si impongono sul terreno, in Crimea come in Siria, sono in qualche modo il segno del mondo che ci aspetta. E sono il tracciato sul quale l’Occidente potrebbe davvero prendere la via del declino, perdere l’egemonia culturale e ritirarsi, una tra le altre civiltà. Pur con punti di vista diversi, Huntington e Berlin non ne sarebbero contenti: certe mappe hanno un fascino che ghiaccia il sangue.