Danilo Taino, Corriere della Sera 20/7/2014, 20 luglio 2014
SE NEL MAR DELLA CINA RIPARTE LA CORSA ALLE ARMI
Stiamo scoprendo in queste ore che la geopolitica è violentemente tornata. Dopo la fine della Guerra Fredda, conflitti locali ci sono sempre stati, ma la lotta per l’egemonia (globale o regionale) tra potenze non c’era o era lontana. Ora, in Ucraina è in questione il ruolo della Russia, come in parte in Siria, dove un interesse diretto lo ha anche l’Iran, potere regionale. In Iraq è in gioco la creazione di un nucleo di califfato, anche qui con grandi interessi di Iran, Arabia Saudita e in genere del mondo islamico. Crisi distinte. Ma che in comune hanno la spinta verso la creazione di un nuovo ordine «post americano». Bene: qualcosa del genere sta avvenendo, in modo meno visibile ma costante, anche in Asia, attorno al Mare Cinese Meridionale. Lì è in atto una corsa agli armamenti che racconta qualcosa di serio.
Che la Cina si stia riarmando è risaputo: tra il 2000 e il 2013 le sue spese in armamenti sono passate da 37 a oltre 171 miliardi di dollari (in dollari costanti al 2011) — secondo lo Stockholm international peace research institute, Sipri, un punto di riferimento per quel che riguarda le statistiche militari. Una buona parte degli investimenti sono destinati a garantire una forte presenza in questo tratto di mare. Per la preoccupazione degli altri Paesi che vi si affacciano, seriamente spaventati dalla sempre maggiore assertività di Pechino. Tra il 2000 e il 2013 , il Vietnam ha più che raddoppiato le spese militari, da 1,5 a 3,2 miliardi di dollari. La Malesia è passata da 2,4 a 4,8 miliardi . Le Filippine da 2,2 a 3,2 miliardi . Taiwan, che da sempre teme Pechino e non hai mai smesso di armarsi, rimane stabile sui dieci miliardi . L’Indonesia ha visto il suo budget militare passare da 1,8 a 8,4 miliardi di dollari. Singapore da sette a nove .
Qualcosa sta succedendo. È che il Mare Cinese Meridionale è fondamentale per Pechino. Di solito si dice che è importante perché sotto di esso ci sono quantità di idrocarburi. In parte è forse così. Soprattutto, però, per la Cina è un passaggio obbligato del traffico commerciale tra la sua costa e l’Oceano Indiano e poi il Medio Oriente dell’energia e l’Europa dei mercati. Per questa ragione una parte consistente dei 171 miliardi di dollari vanno nell’ammodernamento navale, soprattutto sommergibili, che ha l’obiettivo di affermare il controllo cinese su queste acque e di indebolire la presenza americana. Un’area sulla quale Pechino ha anche istituito una zona di identificazione (gli aerei che la attraversano devono avvertire i cinesi) e nella quale sta conducendo ricerche petrolifere spesso finalizzate a piantare bandiere in acque lontane dalla madrepatria: ovvio che i ben più piccoli Paesi vicini cerchino di alzare difese.
Secondo uno dei maggiori studiosi di relazioni internazionali americani, Robert Kaplan, il Mare Cinese Meridionale è per la Cina ciò che i Caraibi sono stati per gli Stati Uniti: il braccio d’acqua il cui controllo proietta molto in là l’influenza del gigante che lo esercita. Anche i numeri che raccontano il gran ritorno della geopolitica.