Fabrizio Massaro, Corriere della Sera 20/7/2014, 20 luglio 2014
LA CONSOB STUDIA LA FINANZA ISLAMICA ECCO LA LISTA DEI TITOLI ITALIANI CERTIFICATI
MILANO — Se un investitore o un fondo sovrano islamico, pienamente rispettoso dei principi religiosi sulla finanza, volesse investire in un’azienda quotata italiana, potrebbe farlo solo su Diasorin, Luxottica, Moncler, Parmalat, Recordati, Salvatore Ferragamo, Tod’s. Le sette società sono le uniche comprese nel Dow Jones Islamic Market Index, l’indice mondiale delle 2.510 società «shari’ah compliant», che rispettano cioè le regole religiose in campo economico-finanziario. Quelle tedesche sono invece 36 e le francesi 23. Lo spiega il rapporto «La finanza islamica nel contesto economico e giuridico italiano», firmato da Simone Alvaro, responsabile ufficio studi giuridici della Consob, dedicato alla compatibilità delle regole coraniche con i principi di diritto italiani ed europei. Un tema che desta curiosità, visto che finora in Italia gli investimenti da paesi islamici sono arrivati in maniera «laica» da operatori che seguono il diritto commerciale dei rispettivi Paesi. Da ultimo, Etihad (Abu Dhabi) in Alitalia, che si affianca ai casi ormai consolidati della Libia in Fiat, Unicredit, Eni, Finmeccanica, o di Abu Dhabi in Ferrari, Unicredit, Piaggio Aero Industries, o del Qatar in Valentino e nel Fondo strategico italiano.
Gli esperti di diritto islamico che la Dow Jones ha consultato per preparare l’indice (sono appena trenta i dottori considerati più autorevoli nel mondo) hanno emesso nei confronti delle sette società italiane un parere legale che vale come «bollino blu» per gli investitori ortodossi. Più di manica larga sono stati i dottori coranici consultati dal Ftse per il suo indice Shariah All World (in totale gli indici sono quattro). Qui le italiane sono 13 su 1.381: Buzzi Unicem, Enel, Enel Green Power, Eni, Exor, Fiat, Luxottica, Parmalat, Pirelli, Prysmian, Saipem, StM e Tenaris. In entrambi i casi ci sono finite per caso: si trovano dentro i requisiti richiesti, cioè hanno un rapporto di debito, di crediti verso clienti e di liquidità investita in titoli fruttiferi di interessi che non supera il 33% della capitalizzazione media dei 12 mesi. Inoltre non svolgono attività finanziarie né operano in settori vietati come bevande alcoliche, carne di maiale, armi, tabacco, pornografia, scommesse, casinò, night club, tv via cavo.
Dal rapporto dell’ufficio studi della Consob emerge dunque come l’Italia sia chiusa di fatto a questo settore della finanza mondiale sempre più in crescita e che oggi vale 1.900 miliardi di dollari concentrati soprattutto in Iran, Arabia Saudita, Malesia, Emirati Arabi, Kuwait. Lo studio evidenzia che questi capitali potrebbero essere maggiormente intercettati, visto che non esistono impedimenti di tipo legale in Europa e in Italia a predisporre prodotti finanziari che rispettino la shari’ah. I vantaggi economici di un loro utilizzo sarebbero invece immediati per la maggiore liquidità del sistema e per l’atteso minor costo del capitale per le aziende, visto che entrare negli indici porterebbe i fondi di investimento islamici a investire negli 876 fondi comuni «shari’ah compliant» che oggi gestiscono 60 miliardi di dollari totali. A beneficiarne potrebbero essere il Made in Italy, la ricerca, l’alimentare, le infrastrutture. Ma anche lo Stato potrebbe avere dei vantaggi ad emettere bond «shari’ah compliant», sull’esempio della Germania.
I prodotti da offrire — azioni, fondo comuni, sukuk (strumenti simili ai bond) — non devono essere di pura speculazione o incerti (sono esclusi dunque i derivati non di copertura) né riconoscere un interesse fisso e predeterminato che escluda l’investitore dalla partecipazione al rischio. Basterebbe — è il suggerimento dello studio — ricorrere a una «struttura di controllo sciariatico» che garantisca «la conformità alla shari’ah»: appunto il bollino blu.