Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  luglio 21 Lunedì calendario

LA RIPRESA CHE NON C’È, DALLA CINA ALLA GERMANIA IL GELO ORA TORNA GLOBALE

L’Europa questa settimana festeggerà un anniversario. Niente di cui andare fieri. Non è la firma del trattato di Roma, la caduta del Muro di Berlino o la presa della Bastiglia. Sono le poche parole che invertirono la direzione della crisi finanziaria. Due anni fa di questi tempi Mario Draghi, presidente della Bce, disse che avrebbe fatto “qualunque cosa” per fermare la crisi. “E credetemi, sarà abbastanza”. Quelle parole cambiarono la psicologia dei mercati e inaugurarono una lunga discesa degli spread fino ai livelli attuali. Un titolo di Stato decennale del-l’Italia, un Paese il cui debito sfiora il 135% del Pil, oggi rende appena il 2,8%. Questo significa che l’area euro è pronta a festeggiare la svolta di Draghi con un’estate tranquilla? In apparenza sì, eppure i segnali della fragilità dello stato di calma raggiunto sono troppi per poter essere ignorati.
Ci sono le cronache dei mercati, che non portano solo buone notizie. Quando Fincantieri è andata in Borsa, dando il colpo d’avvio alle privatizzazioni, il prezzo del collocamento è stato una delusione per il Tesoro e l’azienda non è riuscita a collocare tutte le quote previste. Sono passati pochi giorni e due esordi annunciati Piazza Affari sono stati rinviati: la farmaceutica Rottapharm e Sisal (giochi d’azzardo) hanno ritirato le offerte. Nel frattempo la produzione industriale in Italia ha segnato una brusca battuta d’arresto di maggio. Il Centro studi Confindustria
stima che nel secondo trimestre il settore manifatturiero sia stato in arretramento dello 0,5%. Un calo più marcato di quello dello 0,1% del primo trimestre. Nel frattempo l’indice dei prezzi al consumo resta paralizzato allo 0,3%, mentre i prezzi dei beni all’uscita dai cancelli delle fabbriche stanno scendendo. Gli imprenditori sanno che hanno costi per la materia prima e i macchinari più alti dei prezzi a cui riusciranno a vendere i prodotti. Se questa è una ripresa in un contesto di stabilità finanziaria, il secondo compleanno della svolta di Draghi poteva essere festeggiato più degnamente. Non stupisce che la scorsa settimana Pier Carlo Padoan abbia manifestato molta cautela in proposito. “I dati più recenti indicano un ritardo nel ritorno della crescita in Europa e altrove - ha detto il ministro dell’Economia - e l’Italia non fa eccezione”.
Il contesto non è semplice. L’indice Ifo, che riflette il clima di fiducia delle imprese in Germania, a fine giugno è sceso ai livelli più bassi dall’autunno scorso. Quest’estate la ripresa tedesca si sta mostrando più debole di come fosse atteso. La Germania ha avuto un primo trimestre dell’anno di crescita solida, trainata più dalla domanda interna che dall’export, ma inizia a soffrire del rallentamento dei clienti internazionali. In particolare la Cina è fra i sospettati delle difficoltà dell’export tedesco. La leadership della Repubblica popolare sembra aver compiuto la sua scelta: dopo anni di eccesso di indebitamento delle imprese non tornerà più agli estremi del passato per gonfiare artificialmente il tasso di crescita. Nel secondo trimestre la Cina è cresciuta a un rispettabile 7,5% annualizzato, oltre le aspettative, ma il boom di acquisti di beni d’investimento tipicamente tedeschi non tornerà presto. Negli ultimi anni la Germania ha lavorato a riorientare radicalmente i mercati di sbocco, dall’area euro verso i mercati emergenti. Ma ora la frenata di questi contribuisce a rallentare l’economia tedesca e, con essa, la domanda di beni intermedi del made in Italy. Questa filiera dunque farà sì che la ripresa in Italia, se ci sarà, non sarà pronunciata.
Guardando ad occidente, gli Stati Uniti sono impegnati in una lunga ripresa che, dati alla mano, si sta dimostrando la più debole degli 11 cicli economici contati dal dopoguerra. Di recente il Fondo monetario internazionale ha ridotto la sua stima del potenziale di crescita americano al 2%, cioè ha ridotto quello che si considera un po’ il limite di velocità del motore dell’economia. Incidono tre fattori. C’è la polarizzazione sociale, che frena la domanda perché l’aumento dei redditi solo per l’1% più ricco non produce un aumento di consumi significativo. Inizia a sentirsi, anche in America, l’aumento dell’età media della popolazione: il numero di persone in età da lavoro cresceva dell’1,2% l’anno negli anni ’90 ma è salito di appena lo 0,4% nel 2013; la forza-lavoro in America è già scesa dal 67% al 63% della popolazione. Infine ci sono le nuove tecnologie, che per ora tardano a far sentire i loro effetti sugli aumenti della produttività.
Il risultato è che l’Europa e l’Italia oggi si stanno muovendo in un mondo senza locomotive. Un crollo dell’economia come quello degli ultimi anni in teoria dovrebbe essere seguito da un rimbalzo quasi altrettanto forte, ma per ora non lo si vede. Il governo aveva messo in conto una crescita dello 0,8% per quest’anno e, se va bene, non supererà lo 0,3%. Con tre milioni di disoccupati ufficiali - ma di fatto il doppio - l’Italia non se lo potrebbe permettere. I numeri raccolti da Credit Suisse dicono che la crescita media del Paese dal 1990 al 2012, una fase che include lunghi periodi di boom globale, è stata di appena lo 0,9% l’anno. Nello stesso periodo la Spagna è cresciuta del 2,3%, la Grecia dell’1,3%, la Germania dell’1,7% e la Francia dell’1,6%.
Ciò significa che, per gli italiani, aspettare che il resto del mondo li tiri fuori dai guai non è più un’opzione. Se nulla cambia nel Paese, la ripresa che arriverà sarà comunque insufficiente a riassorbire la disoccupazione e contenere il debito pubblico. Niente di tutto questo dovrebbe bastare a destabilizzare i mercati finanziari a fine luglio e in agosto, se le tensioni di guerra in Ucraina e in Medio Oriente non si faranno più gravi. È probabile che il governo di Matteo Renzi potrà godere di un’estate di lavoro senza le armi dei mercati puntate contro di sé, in una fase di semi-stagnazione dell’economia e di gelata dei prezzi.
I punti interrogativi più seri si pongono semmai per i mesi seguenti. Fra ottobre e novembre si saprà se alcune banche italiane hanno fallito gli esami della vigilanza europea e se avranno bisogno di un intervento pubblico per ricapitalizzarsi. Se succedesse, il debito pubblico potrebbe salire ancora e la normativa europea prevede che certi obbligazionisti delle banche stesse debbano subire delle perdite sui loro crediti: ciò potrebbe produrre una fase di instabilità dei mercati. Il test successivo arriverà poi entro la metà del 2015, quando la Federal Reserve si avvicinerà all’aumento dei tassi. Benché graduale, la manovra della Fed è destinata ad alzare il costo di finanziamento per governi, imprese e famiglie in tutto il mondo. È possibile che lo spread fra Bund tedeschi e Btp italiani non salirà, ma salirà quasi di certo il rendimento dei Treasury Usa, dei Bund e dunque anche dei titoli obbligazionari in Italia. La sostenibilità del debito, in questo senso, non può che diventare più difficile di oggi. È per questo che il governo Renzi ha davanti a sé un’estate (abbastanza) tranquilla. Ma se non la userà per fare come la formica di Lafontaine, accumulando lavoro per il futuro, potrebbe anche dimostrarsi la sua ultima estate tranquilla.
Il dollaro forte non aiuta la ripresa europea mentre la stabilizzazione degli spread non garantisce sul basso costo del debito: quando nel 2015 la Fed comincerà ad alzare i tassi anche l’Europa e l’Italia dovranno fare i conti con un denaro più caro Il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi