Elvira Serra, Corriere della Sera 21/7/2014, 21 luglio 2014
GIOELE DIX, IL COMICO ARRABBIATO PARLA SOLO DI BONTA’
«Sono una sua fan sfegatata!». È Nina, la cameriera. Poco dopo se ne avvicina un altro, ha 22 anni. «Sono anche io un “automobilista incazzato come una bestia”! E sa come mi chiamo? Joele, con la J però». Davvero?, fa lui, per me? «No, per la Bibbia!».
Certo, per la Bibbia. O forse, ed è più probabile, vista l’età, in onore di Gioele Dix, al secolo David Ottolenghi («ma solo gli amici più intimi possono chiamarmi con il mio vero nome; i peggiori sono quelli che per dissimulare confidenza mi chiamano Davide: ecco, anche no grazie»), l’attore diventato celebre con l’automobilista di Zelig , appunto, con le imitazioni dissacranti a Mai dire Gol — quella di Alberto Tomba su tutte —, con il teatro («tra le cose più importanti che ho fatto metterei La Bibbia ha (quasi) sempre ragione e Edipo.com ») e, infine, il cinema («mi manca ancora un film che faccia la differenza, me ne basta solo uno»).
Seduto a un tavolo di Giacomo all’Arengario, con l’impareggiabile vista del Duomo di Milano — «Spectacular view », ha appena esclamato un cliente americano — Gioele ostenta sicumera mentre sorseggia l’alternativa al Sangiovese proposta da Nina, e poi confessa: «Non ci capisco un cavolo, ma amo la messa in scena e mi piace dare soddisfazione ai camerieri».
Il cielo è ormai rosa tra le guglie gotiche, quando arrivano il pane all’olio con la mousse di mortadella e la burratina. Il discorso vira al privato: paternità, legami, generazioni. Gioele Dix ha appena pubblicato un libro con Mondadori. Si intitola Quando tutto questo sarà finito. Storia della mia famiglia perseguitata dalle leggi razziali e racconta con gli occhi e la voce di Vittorio, suo padre ragazzino, la fuga rocambolesca nell’«amica Confederazione Elvetica», lo smarrimento, la separazione dei genitori dai figli, il lutto con la morte di Stefano, il fratellino. Il tono non è mai vittimistico, lo sguardo è ingenuo e il registro misurato di chi, comunque, vuole vedere anche il bene che c’è stato, non solo il male.
I nonni di Gioele appaiono in tutta la loro fragilità e tenerezza: ottimista Maurizio, pragmatica Giulietta, caratteri opposti che l’orrore della guerra salderà per sempre. Non si può che volergli bene. «Ho di loro un ricordo ricchissimo», prende tempo il nipote, facendosi spazio fra i tagliolini con scampi e melanzane, quasi per mettere ordine nei pensieri. «Mi hanno trasmesso il senso della vita legato al valore delle cose e delle persone. Nonna mi faceva da mangiare, mi preparava le polpette, gli gnocchi alla romana, quando pranzavo da lei non lasciava mai spazio al nonno, parlava tanto in mia presenza, aveva un preciso senso della bellezza e della giustizia, non dimenticava uno sgarro neppure di 16 anni prima, se la prendeva con i fruttivendoli milanesi che non le facevano toccare la merce. Nonno mi portava ai giardini di via Palestro e davamo insieme il pane secco ai cigni. Aveva con le persone una relazione antica, si alzava il cappello quando passava un carro funebre. Entrambi mi hanno dato il senso della profondità del tempo, venivano dall’Ottocento, erano meno attrezzati al mondo moderno».
Nel romanzo la famiglia si salva grazie a un incastro di gesti generosi e coraggiosi, soprattutto gratuiti, come quello del tenente Emilio, che mise a rischio la sua vita pur di accompagnare i fuggiaschi al confine con la Svizzera. «Avevo pensato di provare a rintracciare i parenti di questi personaggi, ma poi mi sono detto che non avrebbe cambiato granché e comunque se non lo avevano fatto mio padre e mio nonno perché avrei dovuto io? Rabindranath Tagore diceva che il bene gira, si tramanda, entra in circolo. I miei genitori ne hanno fatto molto, nella loro vita, memori di quello che avevano ricevuto, nonostante tutto».
Anche i sentimenti si tramandano, entrano in circolo con le generazioni. E Gioele Dix a sua volta è padre, di Marta, e nonno, di Sara. «La relazione più forte è quella con mia figlia. Quando è nata, 29 anni fa, aveva il volto rosa e le mani da vecchia. Non mi stancavo di guardarla, per impossessarmene. La nascita di Sara, mia nipote, mi ha coinvolto di meno: in quel momento ero più preoccupato per la salute di Marta, l’idea che davvero mi commuoveva era che mia figlia avesse una figlia, il fuoco era su di lei, non su di me». Adesso Sara comincia a pretendere la sua attenzione chiamandolo con un incerto «Dàdede» e Gioele sente che qualcosa sta cambiando e un nuovo rapporto sta nascendo. «Forse vorrei portarla al Luna Park. Ma più di tutto vorrei farle conoscere il teatro, il lavoro che faccio, le prove, la magia del creare le cose dal nulla. E poi mi piacerebbe scoprire di nuovo il mondo attraverso i suoi occhi».
Fuori è notte, giù la piazza è illuminata dai lampioni, i turisti sono puntini colorati che si avvicinano e si allontanano lentamente, senza un ordine prestabilito. Joele con la J e Nina portano il dolce e restano vicini per fare una foto insieme con il loro mito. L’ultima parola della serata, rapida, è per Mara, da due anni la (seconda) moglie di David. «In Rete non si troverà niente su di noi, siamo molto riservati, non ci troverete mai nei locali dove si appostano i fotografi». E chiude con un sorriso. Per lei.