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 2014  luglio 21 Lunedì calendario

DI MATTEO, IL GEMELLO DIVERSO DI INGROIA OSSESSIONATO DALLO STATO COLLUSO

Lo spartiacque che l’assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby potrebbe rappresentare nel «correggere» il conflitto infinito fra giustizia e politica, è certamente visto in alcuni settori della magistratura come fumo negli occhi. E le accuse rivolte dal pm di Palermo, Antonino Di Matteo, a Giorgio Napolitano, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, potrebbero esserne un indizio. Quelle parole, ostinate e ripetitive, che suonano ormai come un tentativo di «resistere resistere resistere» ancora, vengono pronunciate da un pm salito su un pulpito che sarebbe meglio non gli appartenesse perché un magistrato oltre che essere imparziale deve apparire come tale. A dimostrarlo, cristallizzato in atti processuali, condotte investigative ed errate certezze, è il suo passato. Nino Di Matteo ha alle spalle un numero cospicuo di inchieste sfortunate che indurrebbero chiunque a un minimo di prudenza. L’ultimo insuccesso del sostituto erede di Ingroia risale a un anno fa, quando il generale e il colonnello del Ros, Mario Mori e Mauro Obinu, vengono assolti dall’accusa di non aver catturato, «proteggendone» la latitanza, il boss Bernardo Provenzano, e di averlo fatto in nome del «patto», dunque della «Trattativa», fra la mafia e lo Stato, di cui ci si sta occupando in un altro processo. In entrambi i procedimenti il magistrato protagonista è lui, Nino Di Matteo. Nella requisitoria del processo al generale dei Ros, Di Matteo si «scatena» con accuse che sembrano indistruttibili: «In questo processo è emersa la più complessa storia dei rapporti tra lo Stato e la mafia tra gli anni Ottanta e Novanta», afferma, accusando quegli uomini del Ros di aver «perseguito obiettivi di politica criminale». Mori e Obinu avrebbero garantito la latitanza del boss dei boss «per contrastare la deriva stragista» della mafia e favorirne l’ala «moderata». E lo fecero attraverso «un’assoluta inerzia investigativa». In nome di queste convinzioni Di Matteo chiede nove anni di carcere. Risultato: entrambi assolti. Le motivazioni di quella sentenza danno il colpo di grazia. Rivelano, infatti, che non ci fu nessun «patto» per la mancata cattura di Provenzano; che il colonnello Riccio, testimone principale dell’accusa, è «inaffidabile»; che le «ipotesi» portate al processo dai pm «per quanto plausibili, restano ipotesi» ed è inutile l’inclinazione a «trasformarle in fatti». Ogni parola di Di Matteo viene spazzata via, e l’assoluzione di Mori fa traballare pericolosamente anche il processo sulla Trattativa. Ma il primo fallimento «professionale« del pm che si accanisce malamente contro il Capo dello Stato e il presidente del Consiglio, risale al processo sulla morte di Paolo Borsellino. Di Matteo e colleghi pm hanno preso per buone le bugie del pentito Vincenzo Scarantino, l’uomo che s’inventa di aver rubato la 126 piazzata, piena di tritolo, in via D’Amelio. E dando retta a Scarantino fa condannare sette innocenti che restano in carcere per anni. Ilda Boccassini tra il ’92 e il ’94 è alla procura di Caltanissetta e indaga sulla strage di Capaci e via D’Amelio. Testimoniando al processo sul depistaggio di Scarantino, racconta di aver scritto, nell’ottobre del 1994, una lettera ai pm per spiegargli che, a suo avviso, quel pentito racconta una sacco di «fregnacce». E che tali fossero lo svela, 17 anni dopo, un altro pentito, Gaspare Spatuzza. Fra i pm a cui la Boccassini indirizza, inutilmente, la missiva, c’è anche Di Matteo. Il quale la verità sulle balle di Scarantino avrebbe potuto «afferrarle» già molti anni prima. Nel 1995, precisamente, quando partecipa al confronto fra Scarantino da un parte e Cancemi, La Barbera e Santo Di Matteo dall’altra. I tre boss sbugiardano il pentito, ma quei verbali sembrano non esistere. Verranno fuori molto tempo dopo. Di Matteo ha sostenuto anche l’accusa nel processo per «concorso esterno in associazione mafiosa» all’ex ministro Saverio Romano. Romano verrà assolto. Un motivo in più per esibire più prudenza e meno attacchi alle istituzioni. Sennò ogni volta tocca scrivere un articolo così.