Riccardo Sorrentino, Il Sole 24 Ore 19/7/2014, 19 luglio 2014
IL COMMERCIO GLOBALE NON SEMPRE FA DA SCUDO
Il progetto è, almeno in parte, fallito. Il mondo occidentale ha a lungo seguito la strategia di integrare in un unico sistema economico tutti i Paesi del mondo, un tempo diviso in tre sfere in conflitto (“freddo”) e quasi isolate: il mondo occidentale, quello comunista e il terzo mondo, più o meno non allineato. Il collante era il “dolce commercio”, che avrebbe dovuto anche creare un interesse forte, economico e finanziario, contro le guerre. Ancora oggi, la Wto - l’Organizzazione mondiale del commercio che di questo progetto era lo strumento - indica come primo e più importante beneficio del commercio internazionale la pace. Bello, ma falso. Kenneth Waltz, uno dei padri della scuola realista nelle relazioni internazionali, ha avvertito che l’interdipendenza crea legami, ma suscita anche frizioni e conflitti. Cento anni fa, del resto, Gran Bretagna e Germania erano ciascuno il secondo maggior cliente dell’altra, senza che questo abbia impedito la Prima guerra mondiale.
Per capire come le cose si siano oggi maledettamente complicate si guardi, se non vi vogliono enfatizzare troppo le tensioni in Europa per le quali esistono procedure di risoluzione consolidate, all’Asia orientale: la Cina e gli Stati Uniti sono stretti da legami commerciali e finanziari (le enormi riserve cinesi detenute sotto forma di bond Usa), ma sono avversarie nel controllo di un’area che va dallo Stretto di Bering all’Australia e vede la presenza di paesi cruciali come la Russia, le due Coree, il Giappone, le Filippine, l’Indonesia. Per questa regione Noah Feldman, della Harvard Law School, ha parlato di Guerra fresca, cool war, diversa ma non più semplice della Guerra fredda, cold war, che ha opposto Stati Uniti e Urss.
Le tensioni economiche sono recentemente diventate talmente forti da portare l’Ucraina a una guerra civile che nasconde un conflitto con la Russia. Il Paese si è diviso, fino a combattere con le armi, sulla scelta di aderire all’Unione europea o alla Comunità economica eurasiatica. La vicenda è un’ulteriore prova del fatto che le unioni economiche e commerciali sono o possono essere quantomeno il sostegno di aree di influenza geopolitica, in questo caso europea e russa (ed è anche un’ulteriore confutazione dell’idea che democrazie non fanno guerre tra loro: Russia e Ucraina formalmente lo sono, come Croazia e Bosnia negli anni 90).
Il caso ucraino ricorda anche che il sistema economico unico non ha evitato la “maledizione delle risorse”, che crea tensioni e conflitti - non solo civili ma anche internazionali - attorno a risorse naturali distribuite geograficamente in modo molto diseguale. La Russia è quindi temuta, anche in Europa, perché le fornisce gas; mentre il Medio Oriente e l’Africa sono infiammate dalla presenza di giacimenti petroliferi e minerari importanti. La fame cinese per le materie prime ha spinto il paese a intervenire sempre più in aree del mondo lontane suscitando le stesse tensioni che avevano creato le multinazionali americane, anch’esse sostenute dal loro governo, un po’ ovunque nel mondo.
Le retoriche del mercato (a favore o contro) hanno poi portato a dimenticare che tra i grandi protagonisti di questa fase ci sono ancora forti istituzioni pubbliche, che si muovono con una logica di potere (anche se sotto vincoli economici): sono di proprietà statale, per esempio, le maggiori compagnie petrolifere del mondo, tutti i Fondi di ricchezza sovrani dei paesi del golfo e di quelli asiatici che intervengono ovunque, spesso suscitando meno sospetti e opposizioni di investitori privati.
Persino le turbolenze tutte finanziarie, “di mercato” sui cambi hanno spesso origine in scelte politiche. La diplomazia delle monete - il caso classico è l’attacco alla sterlina durante la crisi di Suez - non è mai finita, ma è la scelta (a volte non esplicita) di un regime di cambi fissi o controllati a creare tensioni: le scelte di politica monetaria della Fed, che guarda solo agli Usa, si propagano così su altri paesi mettendoli a volte nelle condizioni di dover aumentare o abbassare i tassi nel momento sbagliato per l’economia interna.
Lo Stato quindi non è in ritirata, come spesso si pensa. Molte delle economie protagoniste del nuovo mondo multipolare - di per sé più instabile di quello bipolare del secolo scorso - sono strutturate come forme di capitalismo di Stato (come la Cina, in parte la Russia) o di capitalismo di oligarchie (il Brasile, l’India), che nella politica trovano protezione, alimento e sostegno.
Il grande spostamento di poteri dai paesi ricchi a quelli emergenti, di cui parla l’economista Stephen King della Hsbc nel libro Losing control, è spesso un processo guidato dai governi, e solo aiutato dalla necessità e dal desiderio degli Stati Uniti di disimpegnarsi parzialmente da fronti divenuti via via meno caldi: l’Europa dopo la fine dell’Unione sovietica e l’allargamento della Ue, il Medio Oriente ora che è in vista l’indipendenza energetica della maggiore economia del mondo.
Senza contare che, il “dolce commercio” - aiutato dalla tecnologia - ha dato vita a un’integrazione molto diseguale, e non certo armonica, anche da un altro punto di vista. Ha spinto verso il basso salari e prezzi ovunque, ma non contemporaneamente, e il mondo occidentale ha conosciuto prima la delocalizzazione (verso la contestata Cina) e la deindustrializzazione e solo ora, dopo una crisi difficile da recuperare sul fronte del lavoro, una forte disinflazione. Un’ulteriore fonte di tensioni, anche internazionali.