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 2014  luglio 19 Sabato calendario

L’INCOGNITA DI UN MONDO CHE HA PERSO LA BUSSOLA


Un frammento significativo del nuovo arco della crisi mondiale si presenta davanti il primo giugno, di ritorno dalla città cristiana di Maloula rasa al suolo dai jihadisti, quando il binocolo del generale siriano Sohil inquadra la bandiera nera dell’Isil che sventola sul quartiere di Douma, alla periferia di Damasco. «Sono le milizie di Daish (Al-Dawlah Al-Islamiyah Al-Iraq wa Al-Sham) lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante che qui - afferma Sohil - hanno fatto fuori il fronte rivale di Jabat al Nusra». Neppure il generale può immaginare che soltanto cinque giorni dopo, nella notte tra il 6 e il 7 giugno, i guerriglieri comandati da Abu Bakr Baghdadi conquisteranno Mosul, la seconda città dell’Iraq, con un’avanzata fino alle porte di Baghdad. Nasce un califfato sunnita nel cuore della Mesopotamia, tra Tigri ed Eufrate, mentre i curdi intravedono il loro Stato, agognato da un secolo e innaffiato dai ricchi pozzi di petrolio di Kirkuk.
Il nuovo arco della crisi sembra replicare quello della fine anni 70 e dei primi anni 80, quando il Medio Oriente venne travolto dalle guerre, in Libano, tra Iraq e Iran, fino all’Afghanistan occupato nel 1979 dall’Armata Rossa: ma allora c’era la guerra fredda che marcava "linee rosse", sfere di influenza e alleanze. Oggi, dopo le rivolte arabe del 2011, gli interventi militari occidentali in Afghanistan (2001), Iraq (2003) e Libia (2011), regna quella che gli arabi chiamano fitna, il caos, l’anarchia. Anche per questo il messaggio del califfato attrae i sunniti che si confrontano con la mezzaluna sciita, dal Golfo alle coste del Mediterraneo. Mentre la guerra fredda di allora resta un persistente ricordo nel cuore dell’Europa, in Ucraina, sulle rotte delle pipeline del gas russo, un prolungamento dello sgretolamento del Muro nell’89 e dei conflitti balcanici degli anni 90.
I conti geopolitici, dal continente europeo all’Asia centrale, non si regolano una volta sola ma nell’arco di decenni. Con troppa sicurezza, osservava lo storico inglese Tony Judt, ci siamo lasciati alle spalle il ventesimo secolo lanciandoci a testa bassa in quello successivo ammantato di mezze verità: il trionfo dell’Occidente, la fine della Storia, l’unipolarimo americano, l’avanzata ineluttabile della democrazia e del libero mercato. E ora siamo qui a scrutare con preoccupazione i sermoni del neo-califfo Baghdadi, un figlio di Al-Qaeda che a differenza di Osama Bin Laden un territorio sotto controllo c’è l’ha, vende il petrolio e tratta con quel che rimane dello stato siriano. Ed è persino più ricco del miliardario terrorista saudita, conta sulle donazioni di agiati sceicchi del Golfo, riscuote la tassa rivoluzionaria, controlla i pozzi petroliferi siriani e contrabbanda i reperti degli scavi archeologici. In meno di tre anni una banda raffazzonata di estremisti è diventata il gruppo combattente più ricco del mondo.
Si delineano frontiere incerte e senza nazioni, prevalgono le divisioni confessionali tra sciiti e sunniti, quelle etniche, tra arabi, curdi, turcomanni, persiani, in una competizione feroce per il controllo del territorio: il Medio Oriente non è solo oro nero ma corsi dei fiumi, dighe, centrali. Con il petrolio si fanno i soldi, si acquistano le armi, si compra la labile fedeltà delle tribù, ma è con l’acqua che si mangia. E l’acqua diventa un mezzo feroce per tenere in scacco le vite delle persone. L’unica nazione certa è quella di profughi: oltre quattro milioni tra Siria e Iraq, altri sei i rifugiati interni, con conseguenze prevedibili sulle ondate migratorie.
Affondano le frontiere del Medio Oriente, compaiono forze in campo potenti e misteriose, e si forgiano nuove alleanze tattiche. Turchi e curdi, arcinemici storici, combattono l’Isil e Israele accoglie i primi carichi di petrolio del nuovo Kurdistan iracheno nel porto di Ashkelon. Stati Uniti e Iran, che non hanno relazioni diplomatiche dal 1979 - quando durante la rivoluzione di Khomeini furono sequestrati gli ostaggi nell’ambasciata Usa di Teheran - ma trattano a Vienna sul nucleare, sostengono insieme il governo di Baghdad, dove il primo ministro Nouri al-Maliki non molla la presa nonostante la disfatta dell’esercito sostituito dalle milizie sciite appoggiate dai Pasdaran iraniani e dagli ayatollah. E anche la Russia aiuta Baghdad, inviando i suoi caccia a bombardare i jihadisti dell’Isil, cugini dei ceceni e quindi nemici di Mosca e dell’alleato siriano.
Niente ormai è più illusorio e ingannevole di uno sguardo alla mappa di una regione dove gli arbitrari confini tracciati all’epoca coloniale dopo la fine dell’Impero Ottomano delimitano Stati e popoli che in quanto tali non ci sono quasi più. Mentre uno Stato che dovrebbe nascere da 60 anni, la Palestina, resta soltanto una promessa o una bugia che si sgretola ancora una volta sulle rovine della Striscia di Gaza, tra i missili di Hamas e le offensive di Tsahal. E pure qui i ruoli sono cambiati: il presidente egiziano Mubarak appariva come il mediatore per eccellenza, ora il generale Abdel Fattah al-Sisi, con in tasca i soldi dei sauditi avversari di qatarini, tratta Hamas come un affiliato dei detestati Fratelli Musulmani. È un mediatore interessato più a distruggere Hamas che a salvarlo.
Tutte le previsioni si rivelano sbagliate, compresa quella, sostenuta dalla Turchia, che preconizzava tre anni fa la fine imminente di Bashar Assad che ora, al prezzo di orribili violenze e di un Paese distrutto, si presenta come l’unico argine all’avanzata dei jihadisti. Distrutte le basi ideologiche dei vecchi Stati, nel nuovo arco della crisi si disegna una mappa diversa e lo stesso Islam politico non unisce il mondo musulmano ma lo divide in correnti e fazioni che mettono in forse anche l’esistenza delle vecchie monarchie custodi della tradizione e del petrolio. Ma a che cosa somiglierà il nuovo mondo alle porte di casa nostra non lo sappiamo ancora.