Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  luglio 19 Sabato calendario

GLI ANTICHI SACRIFICI UMANI? HANNO SOLO CAMBIATO VOLTO

[da «Mundonarco»] –

Non lo vedevo da dieci anni, ma ne riconobbi il profilo intento alla contemplazione di un’urna funeraria. All’epoca dei nostri studi in Normale, eravamo stati buoni amici: avevamo condiviso le stesse indifferenze e idiosincrasie. Mi avvicinai e gli posi una mano sulle spalle. Guido si voltò e ci abbracciammo.
***
Decidemmo di visitare insieme ciò che restava di Teotihuacán, la Cité des Dieux. La gran parte degli oggetti esposti erano manufatti sepolcrali: maschere di serpentina, alabastro o basalto; statuette di onice e diorite; urne e vasi di terracotta. Le figure umane ubbidivano tutte a un’unica tipologia facciale: in forma di trapezio rovesciato, con gli occhi socchiusi e la bocca semiaperta da un moto sciamanico di estasi. Io e Guido tentennavamo fra i resti di questa scenografia mortuaria, incerti se abbandonarci all’ipnosi o alla noia. L’assenza di un umanistico appiglio di comprensione invitava alla pace dell’intelletto. La città degli dei, centro economico fra i più ricchi dell’America precolombiana, era fiorita grazie alla prassi dei sacrifici umani, rito preliminare alla costruzione o all’ingrandimento di edifici pubblici. Nessuna traccia rimaneva, nella mostra, di quella impietosa macina di corpi; ma ogni reperto chiuso in bacheca sprigionava un senso di sacra sonnolenza. Continuammo la nostra incursione fra le macerie di Teotihuacán scambiandoci notizie sui reduci della Normale. Su tutti svettava – ed era, ai miei occhi, il solo che davvero potesse conservare il proprio volto di allora – un anemico giovinastro meridionale: Carmelo, lo studente più erudito e brillante della nostra tornata, il quale, dopo una tesi di laurea sull’antropologia leopardiana, aveva abiurato la letteratura per entrare nella Scuola superiore di polizia. Si era poi guadagnato una posizione di spicco nella Direzione investigativa antimafia, specializzandosi nel traffico internazionale di stupefacenti. Guido lo aveva incrociato a Roma pochi mesi prima. Erano andati a bere insieme una birra e Carmelo gli aveva accennato alle proprie inchieste sul rapporto fra la ’ndrangheta e il cartello messicano dei Los Zetas. Fu in quell’occasione che gli parlò di Mundonarco. Il sito www.mundonarco.com raccoglie un’ingente documentazione filmica e fotografica sui crimini perpetrati dai narcotrafficanti: esecuzioni, torture, stupri, scuoiamento e macellazione di cadaveri. Mentre Guido mi iniziava agli arcani di Mundonarco, eravamo giunti alla fine dell’esposizione Teotihuacán. Ci soffermammo in silenzio di fronte all’ultimo e più impressionante oggetto dellamostra: una grandemaschera di pietra verde scuro, scheggiata di netto sul lato sinistro e raffigurante il solito volto trapezoidale, ma, quest’ultimo, scosso dal torpore della propria trance, come fosse in procinto di gemere o gridare, con la bocca sospesa in un’assenza temporanea di suono.
***
Quando giunsi a casa, mi precipitai sul computer per con- nettermi subito a internet. Aprii la pagina di Mundonarco e presi a scorrerne la lunga successione di post.
Aprii il più recente tra i filmini e fissai le immagini fluire sullo schermo. Un giovane uomo, seduto su uno sgabello e con le mani legate dietro la schiena, circondato da tre carcerieri incappucciati, veniva sottoposto a interrogatorio da una voce fuoricampo. La postura insaccata del busto lasciava trasparire assoluta rassegnazione e indifferenza, così come l’opacità dello sguardo e della voce. Il tono monocorde dell’inquisitore prorompeva dallo stesso baratro di apatia. Sembravano entrambi d’accordo sulla totale insignificanza della vita, e sull’opportunità di affrettarne la fine. Dopo un’ultima risposta del morituro, il carnefice gli poneva un coltellaccio sotto il mento e gli squarciava la carotide. Il corpo cadeva per terra di lato, perdendo meno sangue di quanto si sarebbe potuto immaginare. Quindi cominciava, compiuto con la stessa impassibilità, il lungo rito di decapitamento e macellazione. Guardai altri video, ricevendone un’impressione di imperturbabile uniformità. Come nelle gallerie d’immagini dei siti porno, gli attori delle scene di massacro avevano gesti e attitudini interscambiabili, nel segno di una neutralità mortifera. Peggio: sembravano già defunti, agire in stato di assenza, mossi da una determinazione oltretombale. La replica infinita di un necrocidio. Avevo appreso dalla mostra Teotihuacán come, già nella Mesoamerica precolombiana, lo scuoiamento fosse una procedura successiva al sacrificio delle vittime. La meticolosità documentaria dei narcotrafficanti tendeva però ad astrarsi da questo passaggio cerimoniale: il più delle volte balzava, senza tappe intermedie, dall’uccisione del prigioniero al macellamento delle sue membra già scorticate. Ma, d’un tratto, la sequenza ripetitiva dei crimini fu spezzata da un’epifania. Avevo appena cliccato su Mujer sicaria decapita a un Zeta y luego lo descuartizan y le arrancan la piel de la cara, quando, in un proscenio notturno, illuminato dal solo bagliore di una torcia, apparve una donna sui cinquant’anni, di aspetto molto curato, con in mano una specie di sciabola. Accanto a lei, un ventenne sosteneva fra le braccia il cadavere di un coetaneo. La donna iniziava a tranciarne la gola con perizia, rivolgendo sorrisi incantatori all’occhio della videocamera. Come negli altri filmini, la decollazione si dimostrava pratica malagevole. Avveniva in un crepitio di scatti muscolari e sussulti nervosi, cozzando insistentemente contro la trama del tessuto umano. Quando la testa si staccò infine dal busto, la decapitatrice ne espose un primissimo piano al cameraman: un volto con la bocca semiaperta e gli occhi socchiusi, non dissimile dalle figure sepolcrali di Teotihuacán. Ma era solo il principio. Un commilitone della donna irrompeva dal fuoricampo e cominciava a sbucciare il viso con un pugnale. Ne asportava corte strisce di pelle, affondando la lama in direzione delle ossa. Non appena la carne cominciò ad affiorare sotto il coltello, sperimentai il sentimento, per me nuovo, di un’immagine impossibile da guardare, un’immagine insostenibile, come se fosse la mia propria pelle ad essere incisa e dilaniata. Istintivamente mi portai le mani al volto; poi ebbi un conato di vomito e misi il video in pausa.
La suoneria di Skype squillò. Era Anna. Risposi e vidi il suo sorriso comparire sullo schermo. La maternità le aveva tracciato brevi solchi agli angoli della bocca e degli occhi, segno delle veglie imposte dal dominio della natura. Il bambino si era finalmente addormentato, ma forti dolori allo stomaco lo avevano fatto piangere per più di due ore. Anna mi chiese se volevo vederlo. Dissi di sì e lei si alzò con il computer in mano, sconquassando la visuale del nostro appartamento. La videocamera di FaceTime contaminava la penombra coi bagliori opalini del suo sensore. Quando giunse sopra la culla, rivelò il corpo minuscolo di mio figlio, un corpo ancora privo di somiglianze stringenti, e di cui in quell’istante preciso pensai, forse per un residuo di paure prenatali, che fosse esposto a imprevedibili trasmigrazioni. Il profilo del volto posato sul materassino era più immobile di una pietra; eppure, i dolori patiti prima del sonno vi avevano lasciato come un’impronta di moto: una contrazione impercettibile dei nervi e dei muscoli.
***
Dopo che ci fummo salutati, chiusi le pagine di Skype e di Mundonarco; spensi il computer e andai a dormire. Mentre mi assopivo, rividi il volto dormiente di mio figlio e lo animai di un gemito immaginario, condannandolo a sovrapposizioni che lo avrebbero confuso con ogni altro.