Davide Piacenza, Rivista Studio luglio 2014, 21 luglio 2014
W IL FALLIMENTO
«Onesto, ma sfortunato». Così il Regio decreto del 16 marzo 1942, nel pieno del secondo conflitto mondiale, descriveva l’imprenditore che, pur avendo adempito a tutti i suoi obblighi, rischiava la chiusura della sua attività. La legge fallimentare del ’42 – com’è diventata nota in ambito legale e accademico – poneva un distinguo: si guadagnava una seconda possibilità soltanto chi aveva rispettato una serie di obblighi burocratici e contabili. L’Italia di allora era sabauda, e la questione posta di tipo morale: caro industriale, se non vuoi essere segnato dimostraci che non hai commesso errori. E se l’hai fatto, beh, adesso è troppo tardi per pentirsi.
«La cultura anglosassone promuove l’iniziativa imprenditoriale, mentre la nostra – che risale al Medioevo e in parte agli istituti giuridici romani – tutela il pubblico e i creditori», mi ha spiegato al telefono Alessandro Danovi, direttore dell’Osservatorio crisi e risanamento delle imprese dell’Università di Bergamo – Università Bocconi, «ancora oggi si dice “bancarotta” perché secoli fa al mercante insolvente veniva rotto il banchetto con l’ascia». L’avevo contattato perché mi parlasse di uno dei temi più discussi, contraddittori e in divenire del nostro tempo: il fallimento imprenditoriale, e nello specifico com’è regolato, cosa comporta e com’è cambiata la sua concezione rispetto ai tempi dei banchetti e delle asce.
All’interno dell’imprenditoria il microcosmo delle startup, un tempo nicchia e ora argomento privilegiato del salotto culturale globale, ha cambiato più di ogni altra cosa il significato di “fallire”. Lo ha tatto innanzitutto negli Stati Uniti, dal boom delle dot-com in avanti, prosperando in una parte della South Bay californiana, una piana fertile di visioni e utopie nota come Silicon Valley. Se per decadi l’industria tech era rimasta sostanzialmente assimilabile alle altre, tra svendite precipitose per salvare la faccia e circonlocuzioni per sviare dal tabù della bancarotta, oggi – come Paul Smith, esperto inglese del settore, ha scritto a dicembre su Medium – «il fallimento in qualche modo è diventato un esito accettabile e alla moda. Le startup possono andare a gambe all’aria per piani scadenti o scarsa conoscenza del mercato, e i loro fondatori sono subito circondati da gruppi di persone che si congratulano».
Quando lo scorso gennaio Outbox, una compagnia che proponeva di raccogliere la posta cartacea dei suoi utenti e digitalizzarla per cinque dollari al mese, è fallita, l’annuncio sul suo sito diceva: «Dopo mesi di test, abbiamo concluso che ci siamo comportati bene, e abbiamo raccolto buoni dati – che ci hanno detto che non c’era abbastanza domanda per sostenere i costi». Da mesi, tuttavia, i suoi critici esprimevano perplessità sulla realizzabilità del progetto. Solo poche ore dopo Chris Poole – fondatore di 4chan – dedicava sul suo blog personale un requiem all’app di disegno DrawQuest, che poi si sarebbe portata stancamente avanti per un’altra manciata di settimane, esordendo con: «II nostro prodotto è a detta di tutti un successo». E la lista potrebbe continuare con analoghe retrospettive dense di hybris, post melensi e autoassolutori ed epiche di eroi con idee troppo all’avanguardia per essere comprese, accettate e profittevoli.
Un altro aspetto di questa imprevedibile nuova moda, parallelo all’incremento verticale delle vendite di testi quali The hard thing about hard things del venture capitalist Ben Horowitz e The Lean Startup di Eric Ries (pietre miliari dei manuali per nuovi business scritti da protégé della Silicon Valley), risiede in un evento chiamato FailCon. Nata nel 2009 come una conferenza votata alla condivisione degli insuccessi imprenditoriali della comunità di aspiranti Mark Zuckerberg, una sorta di rituale solidale e apotropaico, alla sua prima edizione di San Francisco parteciparono 400 persone. L’anno scorso era già diventato un format così di successo da venire esportato in dodici città del mondo (il 18 giugno sarà a Tokyo, ad agosto a Teheran, Iran). La sua fondatrice. Cassandra Phillips, ora deve affrontare un problema dai contorni paradossali. Come ha scritto lo scorso marzo il New York Magazine, «con la recente popolarità delle narrazioni del fallimento, Phillips controlla gli speaker per assicurarsi che siano più interessati a un’onesta retrospettiva che a farsi pubblicità».
Contattata via email. Cassandra – una Millennial che ha creato FailCon dopo aver visto la sua startup di social media fallire – mi ha parlato del suo evento e della filosofia che ne sta alla base: «Credo che il fallimento sia la più grande sfida da affrontare nel business. Mostrare che l’hai vissuto a testa alta e non solo l’hai passato indenne, ma sei cresciuto per poterlo raccontare è una dimostrazione di tenacia». Tuttavia, mi spiega, «le imprese maggiori devono ancora comprendere il valore del rischio e prepararsi ai fallimenti che possono scaturirne. Ed è in questo che FailCon vuole aiutarli».
Sullo Zeitgeist, Phillips ha le idee chiare: «Non penso che fare i conti con la chiusura di una compagnia sia diventato più semplice. Credo però che questi cambiamenti di atteggiamento spingano le persone a superare gli ostacoli iniziali, che spesso aiutano a evitare quelli più imponenti».
L’ingrediente segreto del successo delle startup è proprio questo: fallire spesso (tanto da rendere il fallimento un feticcio), ma su scala ridotta, in modo da imparare dai propri errori e ripartire, riuscendo dove prima ci si era incagliati. È ciò che sostiene Lean Startup Machine, un’organizzazione che opera su scala mondiale per convertire gli startupper al credo di Eric Ries, celebrato autore dell’omonima teoria – di cui “fail fast” è uno dei motti cardine – ed esportare a ogni latitudine il modello della Silicon Valley. Ma perché si dovrebbe mai aspirare a fallire, e per giunta velocemente? Adam Berk, imprenditore e insegnante giramondo per conto di Lsm, spiega a Studio la prospettiva del gruppo: «Le possibilità che tutto vada secondo i piani nel business sono vicine allo zero. Mike Tyson dice che tutti hanno un piano, finché non vengono presi a pugni. Ries sostiene che realizzare perfettamente una soluzione che nessuno vuole è un fallimento. Per me dipende dall’obiettivo: se il tuo è creare una startup modulare e finisci per fondare un business legato al lifestyle... hai fallito».
«Un esperimento fallito in realtà è un successo», continua Berk nel mezzo di una lezione, «il fallimento è una strada necessaria verso l’esito positivo. Aiuta ad avere successo di proposito, fa capire i motivi che portano a raggiungerlo. Girando il mondo mi accorgo che le persone di Stati diversi molto spesso sono più simili di imprenditori della stessa nazione. Cambia la volontà di provare qualcosa di nuovo e non riuscire».
Quando si parla di fallimento, in Silicon Valley, c’è una storia che risuona ancora nei bar, all’interno dei campus e in quegli open space coi tavoli da ping pong e le macchine del caffè che non abbiamo mai visto ma, complice il cliché, conosciamo a memoria. All’inizio del 2005 Noah Glass, un ragazzo di San Francisco, si inventò un prodotto capace di registrare in formato mp3 un messaggio vocale e caricarlo su Internet. Con l’aiuto finanziario di Evan Williams – che aveva appena venduto a Google la sua piattaforma Blogger – e il suo ex collega dei tempi di Mountain View, Biz Stone, la stessa estate ne venne fuori Odeo, una startup di podcasting. Tra gli altri, Odeo assunse nel suo team un estroso web designer. Jack Dorsey, che aiutò l’azienda a non colare a picco quando, in autunno, Apple lanciò un servizio di podcast integrato in iTunes. Dorsey riesumò una sua vecchia idea: un network basato su status istantanei da condividere via sms con i propri amici. Ne parlò a Glass, che fu entusiasta. Nel settembre del 2006, dopo un periodo di coabitazione dei due progetti, lo stesso Glass annunciò in una lettera agli investitori di Odeo il capolinea della società, proponendo di riacquistare le loro quote. Menzionava anche la nascita di un nuovo servizio: Twitter. Il resto è il poema epico di come il fallimento di una startup si è tramutato in una delle startup di maggior successo di sempre.
Del team di quattordici pionieri che assistettero alla nascita di Twitter faceva parte anche Dom Sagolla. Lui però, a differenza di Jack Dorsey, un mese dopo il lancio del social network venne licenziato da Odeo. «Ho imparato qualche lezione da quell’esperienza», rivela Sagolla a noi di Studio. «Dal primo giorno eravamo pieni del miglior talento di San Francisco. Contano molto più le persone che le idee. E dedicati a costruire qualcosa di cui hai bisogno in prima persona: una delle ragioni per cui Odeo non è stato al passo è che a nessuno di noi interessava davvero il podcasting». Importante, spiega Sagolla, è anche «pianificare una riconversione (il “pivot”). Una delle manovre più difficili per Odeo fu la transizione a Twitter. Siccome il pivot non era pianificato, la qualità del prodotto iniziale ne risenti. La Fail Whale non sarebbe esistita, altrimenti». Secondo Sagolla «ogni grande corporation può comportarsi come una startup, a patto che si attenga a tre principi: la semplicità (il prodotto dev’essere essenziale e focalizzato sulla facilità di utilizzo), i limiti (fissare paletti aumenta la creatività e genera fiducia) e la separazione, perché le grandi squadre sono di dimensioni ridotte, al massimo di otto persone». Tutto interessante, sì. Ma basta questo? E l’Italia a che punto è? «Il problema è nelle nostre radici culturali» – mi dice Marco Magnocavallo, esperto di nuove tecnologie, venture capitalist e fondatore del network Blogo e dell’acceleratore di startup Boox – «I giovani non vengono spinti fuori di casa a vent’anni, non cominciano a lavorare a sedici per pagarsi il telefonino e soprattutto non vengono avvicinati al lavoro nel percorso di studio. Pesano anche l’assenza di meritocrazia sul posto di lavoro e il protezionismo delle associazioni». In altre parole, la cultura italiana del lavoro garantito a vita crea blocchi che non permettono alle nuove leve di rischiare. «Negli anni mi è capitato più volte di avere a che fare con middlemanager di grandi aziende talmente spaventati dalle idee e proposte dei giovani che non facevano altro che ostacolarle», racconta Magnocavallo a Studio. «L’immobilismo è anche nelle università, dove i ragazzi spesso studiano molta teoria senza sperimentarne le applicazioni pratiche in contesti aziendali. Prima studi, poi potrai provare sul campo. Se però cerchi lavoro e non hai pratica, poche aziende ti daranno fiducia. Un circolo vizioso da cui è difficile uscire».
Sono questi elementi a generare un sistema in cui le aziende zoppicanti non chiudono i battenti, ma preferiscono – data la difficoltà a riciclarsi – dotarsi di bombole d’ossigeno e sperare nell’assistenza statale, di fatto togliendo spazio a nuove iniziative. D’altronde lo stesso prof. Danovi mi ha spiegato che «fino a pochi anni fa la legge fallimentare del 1942 dava al fallito incapacità giuridica» e personale, e non gli permetteva di votare o allontanarsi dalla sua residenza senza permesso. «Se il malcapitato si suicidava, la cosa era considerata quasi alla stregua di una naturale conseguenza».
Oggi qualcosa è cambiato, con la riforma in materia del 2005-2006, ma la mentalità comune stenta a riconoscerlo. Sagolla sostiene che «il valore delfailed entrepreneur è qualcosa di principalmente americano. Sono stato in tutto il mondo a fare lezioni sull’innovazione e il lavoro per favorire la cultura che abbiamo a San Francisco. La maggior parte dei posti non tollera il fallimento. Altri semplicemente non hanno abbastanza talento, studenti o diversità per avere numeri che permettano ai successi di livellare le statistiche».
Anche in Italia, talvolta, gli aneddoti che ruotano intorno al tema hanno un lieto fine. «Per me fallire è stata un’occasione di crescita, mi ha permesso di fare un’esperienza di vita impagabile», dice Giorgio Ghisalberti, trentenne di Bergamo che si occupa di software e web engineering. Si riferisce all’ascesa e al declino del suo Plasboo, un social network per condividere luoghi di interesse che ha chiuso i battenti cinque anni fa. «Credo che i successi lavorativi ottenuti dopo Plasboo debbano molto al suo fallimento. Mi torna sempre in mente la frase di Fabrizio Capobianco (figura di spicco della comunità italiana della Silicon Valley): “Un venture capitalist qui è più tranquillo a dare soldi a un imprenditore che sia fallito due volte, piuttosto che a uno che è al primo tentativo”». La riforma del 2005 ha tentato di imitare il Chapter Eleven americano, ma di anno in anno, col recente valzer di esecutivi, si arricchisce di nuove misure e proposte del legislatore di turno. Allo stato attuale prevede un nuovo concordato preventivo in continuità sul modello americano, con criteri meno restrittivi per accordarsi coi creditori, che è sempre più utilizzato. Al di là dell’Atlantico, anni prima di diventare Steve Jobs, un ex impiegato Apple dirigeva un’azienda informatica di medio successo, la NeXT. E prima di pensare a quel loro motore di ricerca, Larry Page e Sergey Brin si erano dedicati a un poco fortunato sistema per ordinare la pizza via fax. Della scena italiana dice invece ancora molto una frase eloquente che Danovi racconta di aver sentito da un importante finanziatore italiano di startup: «Smontare costa quasi come montare».
Siamo ben lungi dal mitizzare la riuscita negativa di un’impresa con passerelle e post celebrativi. Del resto vale un’espressione che ho letto in una mail inviatami da Diane Loviglio, cofondatrice di FailCon. Per abbattere simbolicamente le (insormontabili?) barriere che ci separano dalla Valley vale la pena di non tradurla: «It still sucks to fail».