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 2014  luglio 19 Sabato calendario

LA CAPRIA, IL CUORE FERITO DI NAPOLI

Raffaele La Capria è l’ultimo superstite di una grande stagione della letteratura napoletana, sopravvissuto a Rea, Compagnone, Prisco, alla Ortese e al più defilato Pomilio. E la sua opera si risolve, per buona parte e almeno in superficie, nell’appassionato contenzioso con la città natale. Ne trovi conferma nei due volumi del Meridiano Mondadori che raccolgono tutti i suoi scritti: quanto mai opportuni perchè, a dieci anni dall’uscita di un primo volume, documentano con ulteriori, ricchi contributi la sua alacrità di scrittore. E’ inevitabile soffermarsi nell’occasione su Ferito a morte che occupa nell’arco della sua scrittura una posizione di centralità. Rappresenta, secondo il curatore Silvio Perrella, «il vero modello implicito del “libro unico” lacapriano, la parte per il tutto, la geniale sineddoche di La Capria».
E’ la storia -ricordate?- del giovane Massimo De Luca che lotta più o meno consapevolmente per sottrarsi all’asfittico mondo borghese di cui fa parte, dove una atavica ignavia sembra accendersi soltanto all’incontro di una moderna rapacità. Ma egli deve resistere anche alle seduzioni di un vitalismo propiziato da una fulgida, sensuosa natura. Non basterà a salvarlo l’evasione dalla superficiale orizzontalità del mare alla verticalità dei fondali. La spigola iridescente che sfugge al suo fucile da sub acuisce in lui la sensazione di una «Grande Occasione Mancata», che include l’immaturità e lo sperpero esistenziale. Per uscirne, deve operare uno strappo dalla Napoli delle «belle giornate». Il congedo, frutto di una crisi personale e generazionale, avviene anche con la ricerca, da parte di La Capria, di uno stile che redima una letteratura insensibile, nello sfatto naturalismo e nell’edulcorato sentimentalismo, al vento della modernità. Joyce, Proust, Faulkner sono i suoi numi tutelari.
Napoli dunque, onnipresente, teneramente evocata e pungolata al di là di ogni frustrazione. Il«ritorno» più significativo, recuperato dalla memoria, avviene con La neve del Vesuvio. E’ il racconto della formazione di un ragazzo, protetto dagli affetti familiari, cresciuto nel grembo di una Napoli non ancora deturpata dalla speculazione edilizia. Durante una escursione in mare, Tonino trafigge con lo spiedo un granchio enorme intravisto tra le rocce. Salvo accorgersi che quel prezioso bottino è un guscio vuoto sul quale si avventa gracchiando un vorace gabbiano: «Cra, cra, cra, la giornata perfetta come un uovo si è rotta, tutta l’armonia del giorno è distrutta da una pennellata sbagliata». Il granchio come la spigola, a dare il senso di una precoce sconfitta. Ed in effetti è possibile rinvenire nel racconto, come in filigrana, temi e situazioni di Ferito a morte.
Diversa è l’essenzialità della prosa, senza macchie e torsioni stilistiche, intesa a fissare le limpide epifanie dell’esistenza. Il che vale tra l’altro a rammentare che La Capria è un abile sperimentatore, e miscelatore, di generi e di forme. Egli trascorre infatti dal romanzo al saggio variamente inteso, senza dismettere la sapienza della scrittura e lo zampillo dell’immagine. La grande occasione mancata da Massimo e da Tonino è la stessa di Napoli che l’autore insiste nell’indagare e razionalizzare, fuor di romanzo, ne L’armonia perduta e in Napolitan graffiti. Egli imputa la degradazione civile della città, il fatalismo popolare venato di anarchica ribellione, la lontananza dalla storia e dalla modernità, al trauma segnato dal lontano 1799. Quando una borghesia illuminata che si ispirava alla Rivoluzione di Francia fu sterminata dalla plebe inneggiante ai Borboni. Dalla «grande paura» borghese ha origine il ripiegamento sconfortato e perfino complice nella «napoletanità» più gretta, l’espediente di convivere con la plebe smussandone, insieme al potenziale distruttivo, le confuse aspirazioni di riscatto. Sono concetti che, al di là della loro fondatezza storica, assumono a loro volta una valenza mitica.
D’altra parte va tenuto conto di ciò che affermava Geno Pampaloni già a proposito dell’eroe di Ferito a morte: più che dalla città, offeso «dall’implacabile, irrevocabile tempo, dal trasfigurarsi delle illusioni in disinganni, dall’ombra lunga del tempo che lascia sempre meno margine di luce...». Napoli come metaforico sfondo di una avventura umana che tutti ci coinvolge.
Parallelamente, e a mano a mano che la vecchiezza lo incalza, lo scrittore esce sempre più allo scoperto, a svelare l’autobiografismo diretto o trasposto che connota, senza distinzione di generi, il suo libro unico. Sono i racconti in forma di lettere inviate alle persone care, sono le notazioni che, a guisa di diario, oscillano tra la malinconica rimembranza e una puntuta attenzione agli accadimenti del mondo. Praticando, in sintonia con l’amato Montaigne, l’arte del disincanto; rifugiandosi, contro la faziosità che imperversa nella politica e nella cronaca, in una non accomodante, faticosa «terzietà esistenziale». Con una scrittura che conserva la fluida eleganza e il garbo della grande conversazione d’altri tempi.