Silvia Fumarola, la Repubblica 19/7/2014, 19 luglio 2014
CLAUDIO SANTAMARIA: «IL MIO CANTO LIBERO»
Il giovanotto tatuato si avvicina sorridendo: «Cla’, non sono una ragazza ma te la fai una foto con me?». Sì, Claudio Santamaria se la fa la foto. E stringe mani, scrive dediche e firma autografi, firme frettolose, quasi per togliersi dall’imbarazzo. I ragazzi vorrebbero essere come lui, le ragazze vorrebbero salvarlo, non si sa da che, ma la timidezza si percepisce, è più forte del resto. L’attore che da L’ultimo bacio a Diaz, da Rino Gaetano al ruolo del maestro Manzi in tv ha saputo restituire inquietudini e umanità di personaggi diversissimi tra loro, ride spesso, soprattutto quando spiega che è pieno di dubbi.
Generazione dei talenti quarantenni (compie 40 anni tra pochi giorni, il 22 luglio), si divide tra cinema (ha vinto il Nastro d’argento speciale “Personaggio dell’anno” per il film I venditori di medicine) e teatro, ma confessa, sognava di essere una rockstar. «No», ride «in realtà non la metterei proprio così. Le sembro il tipo? Però la musica è la mia vera passione, mi fa sentire libero. Cantare vuol dire comunicare, dai cantautori al rock. Sono cresciuto con i Cure, Robert Smith, i Litfiba». Ha girato l’Italia con i Jazz All Star, composta da alcuni dei più importanti musicisti del jazz italiano, e fa rivivere le canzoni d’autore di Piero Ciampi, Luigi Tenco, De André, Gaber e Rino Gaetano, (che ha interpretato in una fiction di successo). Santamaria ne è convinto, il dialogo tra generazioni passa anche attraverso la musica.
«È fondamentale nella mia vita e nel mio lavoro, è una forma di comunicazione potente, ha la capacità di riportarti indietro nel tempo. Emozione pura. Ho due fratelli più grandi, prima ascoltavo la musica che sceglievano loro, la new wave dei Depeche Mode ma anche i Pink Floyd, Prince, Billy Idol. De André l’ho scoperto più tardi, Rino Gateano ancora dopo. L’educazione musicale ti fa crescere, a casa mia suonavano chitarra e basso, io la chitarra l’ho imparata più tardi, perché sono mancino .
Per l’adolescente Santamaria le rockstar erano come divinità sul palco. «Da piccolo ero timidissimo. Non pensavo di esibirmi o di mettermi in mostra, cantavo facendo finta, con la voce in falsetto. A sedici anni ho frequentato una scuola di doppiaggio e recitazione, ho avuto un’educazione della voce molta buona. Mi piaceva il doppiaggio, potevo esibirmi senza che nessuno mi vedesse, ero molto bravo a fare le imitazioni e a inventarmi personaggi, fare un’imitazione è una questione di orecchio. Così mi sono appassionato al teatro, ricordo il terrore quando per Piccola città di Thornton Wilder, avevo sedici anni, l’insegnante inserì una canzone di Billy Joel. La provai e magicamente mi resi conto che mi piaceva cantare, ero intonato». Finito il liceo artistico le idee erano più che confuse, indeciso se studiare Biologia, Matematica o Scienze, ma nel frattempo aveva fatto il provino “di rito” all’Accademia, poi la scuola di recitazione di Beatrice Bracco. Ma la certezza era la musica: «Quando ho imparato a suonare avevo un gruppetto, all’università avevo una band, ma ancora non avevo la voce educata, non mi lasciavo
andare. Il rock? No, il rock è un’altra cosa. Energia pura».
Dal set al palco, a caccia di emozioni, per mettersi alla prova. Una passione, quella per il teatro e la musica, che ha trasmesso alla figlia avuta da Delfina Delettrez. «Emma è una bambina sensibile, curiosa. Credo che sia fondamentale imparare da piccoli, la scuola dovrebbe fare la sua parte: c’è un mondo bellissimo da scoprire, fatto di fantasia». Oggi si divide dal set al palco, ma il passo non è breve: «Per un ruolo ti lasci trasportare ma studi, c’è un copione, ti guida un regista. Sicuramente l’esibizione del canto è diretta», spiega Santamaria. «Fin da ragazzino, ai primi concerti, ho capito che si crea un dialogo con chi ascolta, esprimi te stesso e c’è uno scambio. I miei fratelli mi portavano a vedere i Duran Duran, Prince, i Radiohead, un concerto mitico, era l’anno di Ok computer. Ma “il concerto della vita” è quello dei Kraftwerk al Gran teatro, il più grande spettacolo mai visto, loro sono ingegneri, suonano con le immagini».
Non ha mai pianificato di scegliere la carriera di cantante, ma forse il pensiero l’ha sfiorato, anche se aveva già iniziato a fare l’attore teatrale. Il cinema, invece, sarebbe arrivato dopo. «Il primo film è del 1997, L’ultimo capodanno. Devo ringraziare Marco Risi, venne a teatro e lo pregai di farmi un provino: “Tu capisci se sono giusto e se mi vedi per il ruolo”. I provini servono, in America li fanno tutti. Ero pieno di dubbi, qualsiasi seminario di recitazione su tecnica o nuovi metodi, era mio. E la musica c’entra ancora, spesso mi chiedevano: “Ora inventa una melodia e cantala”. Ero pietrificato dalla vergogna. Perché un conto è suonare con i compagni di università, con cui giochi, un conto esibirti senza rete. Ma la cosa più bella è stato scoprire, passo dopo passo, come sentirmi bene e vincere il pudore che t’ingabbia e ti limita. Che sensazione bellissima essere se stessi e dimenticare chi sei per poter essere tante cose ancora. Ti liberi dai complessi e dai pregiudizi».
In scena guidato da Giancarlo Sepe, Barberio Corsetti, Furio Andreotti, adottato dal cinema d’autore (ha girato con Ermanno Olmi Torneranno i prati sulla Prima guerra mondiale e l’opera prima di Gabriele Mainetti Lo chiamavano Jeeg Robot, storia di un super eroe di periferia), ritagliandosi quello spazio di libertà: la musica. Si porta dietro una valigia di dubbi, senza perdere la voglia di giocare, come quando per l’amica Paola Cortellesi, a Non perdiamoci di vista si è travestito e ha cantato e ballato Rocky horror picture show con Pierfrancesco Favino («Il trucco è niente, i tacchi erano un incubo») o quando è salito sul palco con Stefano Accorsi al Festival di Sanremo insieme alla PFM per l’omaggio a De André. Tra una citazione degli U2, un motivo dei Rolling Stones, un sospiro ripensando al talento di Jim Morrison e Bob Marley («Ecco, un concerto che avrei voluto vedere è quello, storico, di Marley nell’80 a San Siro), il timido Santamaria confessa: «Altro che Mick Jagger. Avrei voluto essere Bob Marley con le mani di Jimi Hendrix».