Fabio Scuto, la Repubblica 19/7/2014, 19 luglio 2014
TRA I CIVILI DI GAZA IN VIAGGIO VERSO UN RIFUGIO CHE NON C’È
Corre scalza sull’asfalto bollente di mezzogiorno, una bimbetta di due-tre anni. Il viso impolverato, rigato dalle lacrime, è sola in questa stradina deserta di Sharjah che è un tappeto di detriti, vetri, immondizia e schegge di bomba ancora fumanti. Non piange. Non urla. Non è ferita, non sanguina ma ha gli occhi sbarrati e trema come una foglia. La sua casa era una di quelle lungo questa strada, che adesso sono accartocciate come uno straccio, da dove sale un odore di plastica bruciata, di fogna, di sangue e di morte. Sotto ci sono i suoi genitori, di cui forse non sapremo mai il nome. Lei invece si chiama Safah e si fa prendere in braccio da uno sconosciuto e si fa portare via, al riparo contro l’unico muro rimasto ancora in piedi.
Minuti interminabili finché il bombardamento finisce e arrivano i soccorsi, da quelle case ridotte a tuguri escono decine di persone col volto disfatto dal terrore. Si avvicina un parente che la riconosce, lei tende le braccine finalmente verso un volto familiare. E poi via tutti insieme, in una folle corsa verso la bandiera dell’Unrwa che sventola su una scuola a meno di 500
metri di distanza.
La “Jabalya Primary School” è stata aperta alle prime luci dell’alba per accogliere una nuova ondata di sfollati, spinti a lasciare le case prima con volantini e sms, poi con i proiettili ad altra penetrazione sparati dai Merkava 5schierati lungo tutto il confine nord della Striscia da dove partono buona parte dei razzi diretti contro Israele. In meno di due ore quattromila persone hanno varcato questo cancello per chiedere aiuto. La battaglia della notte scorsa, con le prime operazioni di terra delle truppe speciali israeliane dentro la Striscia e un bombardamento con un colpo ogni trenta secondi, ha spinto decine di migliaia di persone a cercare scampo sotto la bandiera blu dell’Onu, gli sfollati nelle scuole sono oltre quarantamila e più di centomila i senzatetto. Hamas, invitato ad accettare i termini di un cessate-il-fuoco, non sembra interessato a mettere fine a questa tragedia. I razzi continuano a partire contro le città israeliane, attirando la reazione da ogni fronte, dal mare dove due cannoniere aprono il fuoco a ritmo costante, da terra dove artiglieria e carri armati sparano su qualunque cosa si muova o sia identificata come sospetta. Il bilancio delle vittime cresce di ora in ora, quasi trecento i morti tutti civili – almeno 55 sono bambini – oltre duemila i feriti negli ospedali.
I cieli di Gaza sono affollati di caccia F-16 che sfrecciano altissimi prima di lanciare i missili, più a bassa quota volano come calabroni i droni con i loro “Hellfire” che riempiono il silenzio spettrale di Gaza con il lugubre ronzio dei motori che annunciano la morte. Le strade – che in quella breve tregua umanitaria di giovedì si erano riempite di nuovo – sono tornate deserte e spettrali: negozi sbarrati e mercati chiusi, la vita è di nuovo sospesa. Per strada solo le auto di giornalisti e reporter con la scritta TV sul tetto per evitare nuovi drammatici errori come nelle passate guerre nella Striscia, ma spesso non basta. Perché la vita e la morte corrono insieme a Gaza, basta prendere la svolta sbagliata in un villaggio abbandonato sul confine.
I boss di Hamas e della Jihad islamica non danno importanza a questa tragedia, al sicuro nei loro bunker sotterranei, dall’inizio dell’operazione “Protective Edge” sono diventati “fantasmi” e parlano solo attraverso i portavoce, che si esprimono nello stesso linguaggio dei generali di Saddam prima della disfatta del 2003. Descrivono una realtà piena di vittorie, del nemico israeliano in ritirata dopo aver subito incredibili perdite. Dalla tv Al Aqsa e dalle radio proseguono nella campagna di trasfigurazione della realtà. «Stiamo vincendo, i palazzi di Tel Aviv bruciano, i nostri uomini hanno respinto l’assalto dei sionisti », dice lo speaker di Radio Al Quds sui 106.3 dell’FM. Non escono jingle e canzonette dall’autoradio, ma lugubri canti di guerra intervallati dal sordo boato dei razzi che partono verso Israele. Sorvolano sul fatto che il sistema di difesa Iron Dome li polverizza come entrano nel territorio israeliano, che l’altra notte l’incursione notturna di migliaia di soldati di Tsahal ha distrutto dieci tunnel usati per infiltrare miliziani e compiere attacchi oltreconfine, che una quindicina sono stati catturati, che decine di rampe di lancio sono state identificate e distrutte prima che gli israeliani si ritirassero dalla Striscia, avendo subito una sola vittima, forse ucciso da “fuoco amico”.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu era stato restio a lanciare un’offensiva di terra consapevole dei rischi. Hamas si è preparato per anni allo scontro e ha disseminato il terreno di trappole esplosive, è pronto all’imboscata in ogni piccolo villaggio e cittadina, ogni
macchina potrebbe trasformarsi in un’autobomba. E l’alta densità della popolazione di Gaza trasformerebbe una invasione di terra in una carneficina per i militari e per i civili. Per questo i comandanti israeliani hanno scelto la strategia di incursioni di terra – anche in profondità per 3-5 chilometri – e il successivo ripiegamento sulla linea di confine.
Sarà un’altra notte buia per quasi 1 milione di abitanti da giorni senza elettricità e senza l’acqua salmastra a malapena buona per lavarsi, con l’incubo di nuovi bombardamenti. A casa di Ahmad Battir che è sulla Salaheddin di Gaza City si prepara l’Iftar, la cena che rompe il digiuno del Ramadan, un tempo ricca di carne, riso, verdure fresche, frutta e gli immancabili kataef , il dolce fritto con miele e nocciole. La tovaglia è stesa in terra, perché il tavolo è stato messo davanti alla finestra per timore che un’esplosione trasformi il vetro in una miriade di schegge, e nei piatti al centro ci sono datteri, il pane del giorno prima e un barattolo di marmellata. Ma l’ospitalità è sacra. Si divide con l’ospite il poco che c’è. «Non mi importa delle privazioni », mormora sulle scale al momento del commiato Ahmad, «ma spero che il dio di tutte le religioni ci dia almeno una notte senza bombe».