Ezio Mauro, la Repubblica 19/7/2014, 19 luglio 2014
UNA QUESTIONE POLITICA
Oggi la Corte d’Appello sanziona che non c’è stata concussione nella telefonata in cui il presidente del Consiglio ordinò al capo di gabinetto della questura di Milano di consegnare immediatamente e nottetempo la ragazza Ruby ad una vedette del bunga-bunga spacciata per “consigliere ministeriale”: che appena dopo averla sottratta alla polizia abbandonò la minorenne da una prostituta brasiliana. Il fatto non sussiste, anche perché nella riforma approvata in fretta e furia all’epoca del ministro Severino la fattispecie della concussione si restringe e occorre dimostrare un vantaggio per il funzionario concusso. Così come non c’è, secondo la Corte, il reato di prostituzione minorile, probabilmente perché l’utilizzatore finale (come lo ha chiamato l’avvocato Ghedini) non conosceva l’età della minorenne nelle notti ad Arcore.
Resta tuttavia da spiegare — se il Paese e i giornali volessero saperlo — la ragione di tanta fretta e di un così grande affanno, i motivi di quelle bugie enormi, il terrore che Ruby restasse in mano alla questura o nella tutela del tribunale dei minori, la necessità di costruire ad ogni costo non un aiuto alla ragazza (la prostituta brasiliana non può esserlo) ma una scappatoia notturna a interrogatori, domande, possibili risposte. Perché questa impalcatura avventurosa, quest’ansia notturna che spinge un presidente del Consiglio ad interferire nelle procedure abituali della polizia dopo un furto, a far balenare addirittura un incidente diplomatico, a mandare una fidatissima olgettina a “esfiltrare” Ruby dalla questura per poi subito abbandonarla a missione evidentemente compiuta?
Non si tratta più di ipotesi criminali, dopo la sentenza d’appello. Si tratta tuttavia di interrogativi logici e perfettamente legittimi, soprattutto se riguardano un leader politico che al momento aveva anche responsabilità di governo. Nulla di moralistico, come dicono i cantori, nulla di voyeuristico. Siamo dentro il territorio pieno della politica, del profilo pubblico di un Primo Ministro, dell’uso privato che fa della sua carica e del suo peso istituzionale. Dell’imbarazzo repubblicano — come accadrebbe in ogni democrazia occidentale — per questa vulnerabilità costante che spinge ogni volta un Capo di governo a sporgersi oltre il limite alzando la posta dell’abuso per i potenziali ricatti, imprigionato in una rete evidente di richieste esose, traffici pericolosi, intermediari vergognosi, pagamenti affannosi, e il contorno di taglieggiamenti incrociati di profittatori e mezzani come Lavitola e Tarantini.
Scriviamo oggi le esatte parole che abbiamo usato un anno fa, al momento della condanna in primo grado: la questione è politica, non soltanto giudiziaria, nient’affatto moralistica. Questa evidente fragilità privata del Cavaliere rende vulnerabile la sua funzione pubblica, spiega l’eccesso di comando — grado supremo della sovranità carismatica — come forma politica di una potestà sciolta da ogni controllo, e insieme sua garanzia perenne. Un potere statale che protegge se stesso con ogni mezzo e in ogni forma e, dopo aver sempre privatizzato la funzione pubblica, nel caso Ruby rende pubblica persino la sfera privatissima del Capo.
Risolto il caso giudiziario (in attesa della Cassazione), rimane dunque ancora molto da capire: o da spiegare, senza giudizi morali, ma piuttosto con responsabilità politica. Forse adesso, liberato dall’incubo di una condanna che sommandosi alla pena del processo Mediaset avrebbe potuto cancellare i benefici dei servizi sociali, il Cavaliere può dare qualche spiegazione al Paese. Svelando il movente inconfessabile che lo ha spinto a rischiare una condanna a 7 anni per non lasciare una giovane ragazza ladra una notte in questura, fuori da ogni controllo della potestà di Arcore. Perché la polizia di Stato era un pericolo? E per chi?
Ci sono molte cose da chiarire, e Berlusconi potrebbe cominciare a farlo. Anche perché finisce con questa sentenza la leggenda della persecuzione giudiziaria nei confronti del Cavaliere: sarebbe bene che finisse anche la persecuzione politica della destra berlusconiana nei confronti della giustizia, con intimidazioni preventive come la marcia incredibile dei parlamentari davanti al Palazzo di Giustizia di Milano, e con rivendicazioni postume, come chi oggi dopo l’Appello vuole brandire la riforma della giustizia come una clava.
Per noi, come un anno fa a sentenza ribaltata, conta il fatto che sia resa giustizia e cioè che i processi possano arrivare fino in fondo nonostante impedimenti di ogni tipo, assicurando uguaglianza di trattamento dei cittadini davanti alla legge. E perché ciò si compia, serve la reciproca autonomia tra politica e magistratura. Ecco perché è sbagliato, oltre che ridicolo, il corto-circuito che Forza Italia tenta un minuto dopo la sentenza, riscrivendo in forma eroica il disastroso addio del Cavaliere al governo, quasi fosse un “colpo di Stato” prodotto dal caso Ruby e non la presa d’atto finale dello sfarinamento di una leadership. Si tratta di un pretesto ideologico per costruire un’epica ideologica a posteriori, che nella dissimulazione della condanna e delle imputazioni esistenti narra al Paese la falsa leggenda della vittima innocente per costruire un percorso impossibile che arrivi alla grazia.
Ieri la cornice di pretesto era la pacificazione: oggi l’assoluzione. Lo Stato è come sempre il mezzo strumentale, prima la maggioranza di governo delle larghe intese, poi l’intesa per le riforme. Ma lo Stato, la sua ri-definizione istituzionale di norme e regole, non sopportano scambi sottobanco, ricatti, patti segreti di garanzia invisibile. Oggi Berlusconi è stato assolto da due reati infamanti per un Premier: si deve dargliene atto. La sua vicenda giudiziaria resta complicata e pesante, per il passato e per il futuro immediato: deve prenderne atto.
Questa è la realtà dei fatti. Berlusconi può riagguantare un partito stremato e diviso, immediatamente impaurito dal suo ritorno a capotavola. Ma non può riagguantare un intero sistema politico sottoponendolo nuovamente ad un ricatto istituzionale, per scambiare riforme costituzionali con salvacondotti privati. Ci proverà, ma inutilmente, e a quel punto minaccerà di far saltare il tavolo delle riforme. Anche qui inutilmente, per due ragioni: perché esistono altre maggioranze riformatrici possibili. E soprattutto perché nessuna riforma vale il prezzo dell’autonomia delle politica e delle istituzioni e al contrario, della loro deformazione.