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 2014  luglio 18 Venerdì calendario

VITA DA CANI A BOLLATE


Alle tre e mezzo di un pomeriggio canicolare Tato, Olivia, Onda e Gilda zampettano lentamente lungo il corridoio, verso il portone blindato che porta fuori dal carcere. «I detenuti, ora, devono essere chiusi», avverte l’agente. In cella. Non è più tempo di coccole, di giochi, di sperimentare una vita altra rispetto a quella, ogni giorno uguale, dietro le sbarre. I quattro ospiti pelosi della onlus “Cani dentro” se ne vanno, torneranno fra sette giorni alla Casa di reclusione di Bollate, periferia di Milano.
«La prima volta che ho lavorato con il gruppo di pet therapy, quando Tato è uscito da quella porta, ho pianto tutta la sera. Sono crollata in una valle di lacrime. Erano due anni e mezzo che non vedevo un cane. Fuori ne avevo uno che mi è stato portato via quando mi hanno arrestata. Ne ho sentito molto la mancanza, ora c’è Tato... Quando entra in carcere, io dimentico di essere chiusa». Barbara, 39 anni, è una dura, almeno d’aspetto. Probabilmente molto meno d’animo, se si gratta via la corazza che s’è cucita addosso dopo una vita dentro e fuori dal carcere (condanne per 13 anni). «Ero tossicodipendente, ho fatto un sacco di cazzate...». Da un anno e mezzo è a Bollate e per la prima volta s’immagina un futuro diverso. Che magari la possa avvicinare a quella figlia, ormai quasi adulta, che non è riuscita a crescere. «Prima o poi andrò in comunità, diventerò operatore cinofilo. Voglio tirare fuori qualcosa di buono da me, per mia figlia. Se mi danno l’opportunità di ricominciare con i cani, sarò la persona più felice del mondo».
I buoni propositi non mancano, parlando con i detenuti – reparto femminile e maschile – che hanno deciso di partecipare agli incontri di pet therapy organizzati da Valeria Gallinotti e Beatrice Gervasini. Gente con passati pesanti e condanne altrettanto pesanti. Anni trascorsi in carceri dove attività simili si potevano solo sognare, durante le lunghe ore consumate in celle sovraffollate. A Bollate è diverso, dicono convinti.
«Un carcere come questo ti cambia la prospettiva. Ti dà stimoli, la possibilità di rimetterti in gioco. Non c’è un allontanamento brutale dalla realtà come avviene in altre strutture», dice Marco, il “musicista”, 53 anni. A Bollate si possono svolgere molte attività, lavorative e no, c’è la possibilità di fare musica, sport, un giornale. E c’è la visita settimanale dei cani, quelli delle volontarie di “Cani dentro” ma anche i trovatelli dell’associazione “Il Cercapadrone”, che i detenuti collaborano ad educare, dai comandi più semplici, “seduto” o “a terra”, ai più complessi giochi d’intelligenza.

Un’ora di svago. «Qui in carcere si soffrono disagi psichici gravi. Per me il cane è molto più che un divertimento o un compagno di giochi». Parola di Gianpaolo, un omone grande e grosso, coperto di tatuaggi, 43 anni, una condanna a 21 per rapina. È il più gentile del gruppo, il primo a correre per dare una mano a Valeria con le borse, il primo ad abbracciarla quando varca quella famosa porta blindata con i suoi cani. «Sono a Bollate solo da un anno, qui ti danno davvero tempo e occasione per pensare, per riflettere». Stai riflettendo? «Ho già riflettuto. Quando esco voglio fare altro».
I detenuti si dividono in gruppetti. Stanno insegnando ai cani a fare ricerca olfattiva di oggetti. «È un’esperienza che mi dà grandissime soddisfazioni», dice Valeria, entusiasta dell’attività cinofila nel carcere. «I detenuti sono molto partecipi e propositivi, hanno una gran voglia di lavorare in questo progetto».
Qui arrivano anche quattrozampe che hanno conosciuto solo la vita del canile, chiusi dietro le sbarre anche loro, o il randagismo. I detenuti insegnano i comandi base, i comportamenti corretti e anche qualcosa di più. Una coccola, un “bravo”. Serve ai cani, serve anche a loro. Gianpaolo conferma: «Tornare ad accarezzare qualcuno, dopo tanti anni, è un’emozione per me indescrivibile. Anche se è “solo” un cane, quando mi lecca il volto mi fa riscoprire il mio lato più intimo, la capacità di commuovermi. I rapporti umani sono molto intensi in una vita spesa all’interno del carcere, ma sono rapporti distorti. E poi nel cane non c’è pregiudizio, non gliene frega nulla se tu sei un carcerato o meno». È una roccia d’uomo, Gianpaolo, ma i suoi occhi luccicano quando parla di quelle carezze mancate, di quel contatto umano che qui non c’è. Gli fa eco Davide, 25 anni, siciliano, condannato per evasione fiscale: «Dopo le asprezze di San Vittore, qui sto riscoprendo l’affettività. Il cane è davvero il nostro migliore amico. Non come l’uomo che divide sempre fra buoni e cattivi».
Oltre la droga. C’è un fuori programma, oggi. Arriva il via libera per fare le foto intorno allo stagno, nel giardinetto dietro il reparto maschile. È un attimo e i detenuti si tuffano assieme ai cani. Ridono, si schizzano, si rituffano. L’agente Francesco, rimasto dietro le sbarre, finge di borbottare «poi le risistemate voi le sponde...». Alcuni detenuti, poco più che ragazzi, rispondono pronti: «Certo!». L’agente, uno dei tanti volti bonari di questo carcere, smette di borbottare.
Thomas, ventisettenne con il viso da adolescente, riemerge dall’acqua raggiante. Una ventina di minuti dopo, asciugato e cambiato, si presenta nella sala interna con un sorriso infinito. «Erano anni che non mi divertivo così. Eppure è poco più di una pozzanghera con quattro cani. Prima, quando ero fuori, se non avevo le tasche piene di soldi non mi divertivo, o pensavo di non potermi divertire. Mi drogavo e spendevo». Ha lo sguardo del bravo ragazzo e, chissà, forse un avvenire diverso davanti a sé. Arrestato per spaccio in una delle retate contro i clan criminali di Quarto Oggiaro, Thomas è stato condannato a dodici anni ma finirà di scontare la pena in comunità. Fuori ha una figlia, di cinque anni. E promette: «Cambierò».
Fuori si sbaglia. Nel reparto femminile, l’incontro è più raccolto. Solo due le detenute sempre presenti, Barbara e Michela. Ed è più freddo l’atteggiamento delle agenti di sorveglianza che non riescono a mascherare il distacco (o forse è timore?) verso quegli ospiti a quattrozampe, Tato in particolare, imponente dobermann, buono come il pane. Barbara assicura: «Io e il Tato siamo molto simili. È pacifico, socievole, affettuoso, molto coraggioso. Ma quando viene attaccato, come succede a me, sa difendersi. A volte, pare che mi legga dentro. Un giorno in cui ero nervosa per una brutta notizia, lui ha subito capito che ero straziata, non voleva starmi vicino perché sentiva la rabbia che avevo dentro».
Michela, invece, spiega convinta che alla dolce labrador Onda lei parla con gli occhi. Funzionaria delle agenzie delle Entrate, 65 anni, è stata condannata per corruzione e truffa. «Fuori si sbaglia. Dentro la rabbia si accumula. Meno male che ci sono i cani. Tutto lo stress e le angherie che si vivono qui io le scarico quando sto con loro. Basta che ti guardino, con quei loro occhi profondi, e ti danno la carica. Nelle persone io vedo il tradimento, ma il cane non può tradire». Sopra il suo letto, in cella, campeggia la foto del suo pastore tedesco, Oksa III. «Ogni anno, il 4 ottobre, festa di San Francesco, il carcere apre le porte anche ai cani dei detenuti. Il mio come mi riconosce impazzisce, guaisce, io dico che piange di gioia».
Un lusso oltre le sbarre. Al gruppo della pet therapy partecipano anche alcuni “sex offenders”. Uomini che hanno violentato, picchiato, ucciso compagne, ex o conoscenti. Sorridono meno, stanno un po’ defilati (Bollate è l’unico carcere in cui i sexual offenders riescono a convivere con gli altri detenuti, senza rappresaglie). Li unisce l’amore per gli animali. «Il cane non ha malizia. Ci dimostra soltanto affetto e per noi è anche un sostegno psicologico: pur non avendo i mezzi dell’uomo, percepisce bene le nostre problematiche, i cambi d’umore, le ferite dell’animo», racconta Carlo Emanuele, condannato a 14 anni per omicidio, che in carcere si è laureato in Scienze per l’educazione («ora vorrei prendere la magistrale»). Accanto a lui c’è l’avvocato romeno Daniel, dieci anni per tentato omicidio: «Al cane non importa se siamo detenuti, gli errori che abbiamo commesso. Siamo uomini e basta. Nessun pregiudizio. Mi piace insegnare loro i comandi. Ma anche loro stanno educando me, con il loro atteggiamento tollerante. Ho imparato a non giudicare». E poi c’è Nazareno, 53 anni, fine pena mai: ha ucciso la moglie. «Gli animali sono utilissimi per il benessere psicologico, soprattutto per chi come noi vive rinchiuso. Qui non esistono contatti fisici o emotivi. Anche accarezzare un cane diventa un lusso».
Francesca Garbarino, criminologa dell’associazione C.I.P.M. che agli autori di “reato sessuale” detenuti a Bollate offre un’attività trattamentale (da proseguire eventualmente dopo la detenzione), guarda con interesse e un pizzico di cautela al progetto di pet therapy. «La sola pena detentiva favorisce un mero congelamento delle problematiche sottese al reato, con il conseguente rischio di recidiva una volta che il soggetto, “scongelato”, rientra in società. Il rapporto con l’animale, non mediato dal linguaggio, dai rischi di intellettualizzazione, può in effetti facilitare il contatto e l’espressione emotiva; è però importante che il soggetto possa accedere a un’elaborazione dei propri vissuti», spiega. «Per questo ritengo che l’attività con gli animali in carcere potrebbe avere maggiore efficacia se affiancata nell’ambito di una progettualità più ampia di tipo trattamentale».
È ora. Le sbarre tornano a chiudersi. Tato, Onda, Olivia, Gilda scodinzolando se ne vanno. Beatrice, la loro accompagnatrice, chiude la fila: «Se ripenso al sorriso che le detenute e i detenuti ci regalano tutte le volte che torniamo qui con i cani... Dimentichi che c’è un fuori».