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 2014  luglio 18 Venerdì calendario

COSÌ PASOLINI PORTÒ CRISTO A SUD DI EBOLI


Il più duro e severo degli evangelisti, nella più dura e severa terra italiana. Cinquant’anni fa Pier Paolo Pasolini faceva immigrare San Matteo in Basilicata. Non fu una scelta di ripiego. Lui, l’eretico ateo appena processato per vilipendio alla religione, un pellegrinaggio in Terrasanta in cerca di set per il suo film sacro l’aveva fatto, nel 1962. Ma quel paesaggio di città «precristiane e un po’ funeree» non lo aveva convinto.
Il sole «ferocemente antico» per impressionare la sua celluloide lo trovò invece nella Lucania dei braccianti e delle città di sasso spopolate e in rovina, nella terra di pena e di confino che un Paese intero ignorava ancora, la terra dove Cristo si era fermato. Quella terra ora si ricorda di Pasolini. Il Museo nazionale d’arte medievale e moderna di Matera racconta quell’incontro di polvere e di spirito a Palazzo Lanfranchi (fino al 9 novembre) con un evento a più volti: fotografie, filmati, oggetti, costumi, documenti del film e del set; ma anche un gioco di rispecchiamento fra il film e l’arte che gli fu contemporanea, soprattutto la scultura.
Vuole la mitologia pasoliniana che l’idea del Vangelo secondo Matteo sia nata in un pomeriggio di dubbi e tormento del regista, in un albergo di Assisi, il 2 ottobre 1962, nell’attesa della visita francescana di papa Giovanni XXIII (al quale il film sarà poi dedicato). Andare? Non andare all’incontro col pontefice? La mano scivola sul comodino, afferra una copia dei Vangeli, l’occhio corre a Matteo, il più «ebraico» e «iracondo» degli evangelisti, quello che più umanizza il Figlio di Dio. La scelta di farne un suo film, ma un film che non fosse poi così suo: «Avrei potuto demistificare la figura di Cristo mitizzata dal romanticismo, dal cattolicesimo e dalla controriforma, demistificare tutto, ma come avrei potuto demistificare la morte?».
Un giro in auto nelle regioni dell’estremo stivale bastò a prendere la decisione. La città vecchia di Matera fu Gerusalemme. Barile, in Puglia, fu Betlemme. Massafra fu Cafarnao. E così via. Cristo nacque e morì fra i «cafoni», sottoproletari di un Meridione irredento, e non fu un caso. Fossi stato francese, pare abbia detto Pasolini un giorno, lo avrei girato in Algeria. E tuttavia il film sorprese tutti, in positivo le gerarchie porporate, in negativo la sinistra perplessa. I cardinali s’affollarono all’Ariston di Roma per la prima, si organizzò una proiezione dentro Notre Dame.
Ma cosa fu quel film per il suo autore forse lo si capì solo un decennio dopo, nel 1975, quando l’amico artista Fabio Mauri, alla Galleria d’arte moderna di Bologna, lo proiettò sul petto di Pasolini stesso trasformato in schermo vivente (la performance Intellettuale, filmata, si vedrà in mostra). La Lucania, il Vangelo, Cristo stesso, iscritti sul corpo che di lì a pochi mesi avrebbe patito, sulla spiaggia di Ostia, il suo laico feroce martirio.