Giuliano Aluffi, Il Venerdì 18/7/2014, 18 luglio 2014
MENO MALE CHE COMBATTERE IL DOLORE NON È PIÙ PECCATO
La nostra conoscenza del corpo umano arriva ormai al genoma e le neuroscienze sono quasi in grado di scattare foto ai nostri pensieri, eppure la guerra al più antico nemico dei viventi, il dolore, non è ancora vinta. E i pazienti che, per questo aspetto delle malattie, rischiano di più di essere trattati dai medici in modo improprio sono rimasti gli stessi dall’800 a oggi: i bambini piccoli, le donne, gli anziani. Uno studio del 2005 su 73 mila malati di cancro over 65 mostrava infatti che solo un quarto di chi riportava dolore quotidiano riceveva morfina e che i pazienti più anziani, gli over 85, erano quelli a cui veniva data di meno. Una ricerca del 2010 dice poi che, in linea con l’atteggiamento medico dell’800, infermieri e medici sottovalutano il dolore nei bambini. Come è poco considerato quello delle donne che invece, secondo uno studio di quest’anno della ricercatrice di Stanford Linda Liu, soffrirebbero più degli uomini, almeno per malattie come diabete, artrite, e alcuni disturbi respiratori.
«Nella storia del dolore troviamo diseguaglianza e pregiudizio. Ad esempio l’idea che i bambini e le persone di colore siano meno sensibili al dolore, che legittimava trattamenti più crudeli, come le operazioni chirurgiche senza anestetico» spiega Joanna Bourke, docente di storia alla Birkbeck University di Londra e autrice di The Story of Pain. From Prayer to Painkillers (Storia del dolore, dalla preghiera agli analgesici, Oxford University Press, pp. 416, sterline 13 – circa 16 euro – su Amazon.uk). «Ancora oggi la possibilità di accedere a cure per ridurre il dolore non è uguale per tutti. Come un anestesiologo disse ad altri membri della Società americana della sua categoria medica nel 1999, “I poveri non si aspettano di guidare una Rolls Royce, quindi perché dovrebbero aspettarsi di ricevere gratis la Cadillac degli analgesici?”. Se non altro sono cadute però le motivazioni, spesso fantasiose, usate da medici e teologi nei secoli scorsi a difesa del dolore. Nelle sue lettere James Young Simpson, primo a usare il cloroformio per alleviare i dolori di una partoriente, ricordava che i preti lo consideravano uno strumento del demonio: il dolore del parto era per loro l’effetto del peccato originale, e quindi andava sopportato e basta».
Non si è pensato solo che il dolore purificasse, ma anche che fortificasse. Il che, dal punto di vista dell’evoluzione, potrebbe anche essere vero: uno studio pubblicato su Cell Press a maggio mostra, per esempio, che le seppie che subiscono un piccolo danno fisico senza anestetico diventano più vigili e mettono in atto una serie di difese preziose in situazioni di pericolo. Gli studi non hanno invece confermato affatto le idee stravaganti dei frenologi dell’800, secondo cui dalla conformazione del cranio si poteva risalire alle qualità psichiche delle persone. In particolare, nel 1815 Johann Gaspar Spurzheim sosteneva l’esistenza, sopra l’orecchio, dell’«organo della distruttività», il cui ruolo sarebbe stato quello di farci rimanere indifferenti al dolore altrui. E nel 1886 un altro frenologo, Nelson Sizer, teorizzò che i migliori chirurghi erano quelli con un organo della distruttività molto sviluppato.
Oggi la frenologia è un ricordo e nessuno pensa che i chirurghi debbano essere «distruttivi», ma negli ospedali si continua spesso a ignorare il dolore. Perché? Secondo la Bourke è anche una questione di comunicazione. Come diceva Virginia Woolf in Sulla malattia, per il dolore non ci sono parole: «La studentessa più sprovveduta, quando s’innamora, ha Shakespeare e Keats pronti a parlare per lei; ma lascia che un sofferente provi a descrivere a un dottore il dolore nella sua testa e il linguaggio all’improvviso si essicca».
La fisiologia umana è una sola, il dolore invece è allo stesso tempo intimo e poco condivisibile: un mostro alieno che ci tocca nel profondo. «Abbiamo sempre immaginato il dolore come un ospite indesiderato, qualcosa di esterno» osserva Bourke. «Nietzsche scrive nella Gaia Scienza: “Ho dato un nome al mio dolore: lo chiamo “cane”. È fedele, importuno e spudorato proprio come ogni altro cane”». Oltretutto culture diverse hanno diversi concetti del dolore: «Si è visto con uno studio che i finlandesi non associano le parole “punizione” e “dolore”, mentre gli inglesi sì: non a caso il sistema scolastico inglese era famoso per le punizioni corporali».
Alla difficoltà per il paziente di trovare le parole si aggiunge l’indisponibilità dei medici ad ascoltarle: «Fino all’800 il racconto del paziente, dolore incluso, era ritenuto cruciale per una diagnosi accurata» osserva la storica. «Ora le conoscenze di microbiologia, chimica, fisiologia e neurologia hanno fatto diventare la voce del paziente un mero “rumore”, di scarso valore diagnostico. Le statistiche hanno rimpiazzato il linguaggio».
L’indifferenza verso i pazienti, paradossalmente, è stata amplificata proprio dall’anestesia. Il medico James Miller nel 1848 scrisse che, prima degli anestetici, gli studenti medici e i chirurghi impallidivano durante le operazioni, non per la vista del sangue ma per i lamenti del paziente. Dopo l’invenzione degli anestetici, invece, dolori e lamenti sono per fortuna diminuiti, ma sembrano calati di pari passo il senso della responsabilità e la prudenza dei medici (facendo salire i casi di «bisturi facile», ossia di operazioni non necessarie ma lucrose). Né si presta mai molta attenzione alle conseguenze più generali del dolore, soprattutto quello cronico, sulla psiche. «In ogni dolore c’è una sensazione corporea e un’esperienza psicologica» spiega Ronald Schleifer, docente di letteratura della medicina all’Università dell’Oklahoma e autore di Pain and Suffering (Dolore e sofferenza, Routledge, dollari 28,45 – euro 21,90 – su Amazon). «La medicina occidentale, per lo più, si sofferma sulla prima, trascurando la sofferenza interiore del paziente».
In generale, c’è poi scarsa preparazione a riconoscere i segni del dolore. «Le espressioni non verbali del paziente sono ignorate di routine» spiega Bourke. «E i tre quinti dei medici americani, per il dolore, preferiscono usare il verbo “ridurre” piuttosto che “eliminare”. E in uno studio, sempre Usa, su malati terminali di cancro, l’89 per cento del personale medico dichiarava che la medicazione impartita ai pazienti era adeguata. La stessa percentuale di pazienti riportava “una moderata sofferenza”. Insomma per i medici una “moderata sofferenza” era accettabile».
Certo, resta vero che in alcuni casi ridurre il dolore può comportare dei rischi, anche seri. «Per esempio con l’epidurale, che potrebbe causare pericolosi abbassamenti di pressione e convulsioni. Inoltre gli analgesici possono ostacolare una corretta diagnosi, soprattutto nel caso di dolori addominali» dice Bourke. Ma di qui a considerare il dolore come un bene ce ne passa.