Riccardo Staglianò, Il Venerdì 18/7/2014, 18 luglio 2014
I CINESI SPENDONO. E NOI? PRONTI A TUTTO PER NON ACCONTENTARLI
Roma. Davanti a un Colosseo imbracato per restauro i turisti fanno la fila per lasciarsi fregare. Il conducente, con bermuda, cappellino da baseball e tatuaggi postribolari, chiede centottanta euro: «Famo Piazza Venezia, via del Corso, Palazzo Chigi e arivamo a Trinità dei Monti». La guida traduce in cinese e Sophia, che sembra appena uscita da Pitti Donna, ne offre 150, che ovviamente l’altro accetta (sdegnato, farà il viaggio al trotto rallentando, ma non fermandosi mai, per le photo op promesse). Huan ying lai dao yi da li, benvenuti in Italia, portatori sani di valuta in tempi di vacche magre! Apprezziamo la vostra visita al punto da farvi sudare per il visto, negandovi in stanza il bollitore (da 10 euro) per l’acqua calda che vi piace tanto e proponendovi mappe e guide spesso in giapponese, quel popolo con cui notoriamente avete una secolare, splendida intesa.
Quello dell’accoglienza dei cinesi nel nostro Paese è un frattale perfetto dello stato di salute del turismo italico. Che a sua volta sembra ricalcare le nostre sorti calcistiche: talenti incalcolabili che si fanno battere da chi si applica di più, uruguaiani inclusi. Nonostante questo, nonostante tutto, i cinesi vengono sempre più numerosi. Circa 300 mila all’anno, desumendo il dato dai visti che chiedono nei nostri consolati in Cina. E spendono sempre di più. «Nel 2013 hanno fatto registrare una crescita del 20 per cento per i rimborsi dell’Iva sugli acquisti e da soli valgono poco meno di un quarto del mercato italiano del Tax Free Shopping. Secondi solo ai russi» dichiara Global Blue, azienda specializzata in servizi ai turisti. Uno scontrino medio per 4-5 giorni di visita è superiore ai mille euro. Che diventano 6.200 nell’epicentro del lusso, tipo via Condotti a Roma. Di loro possiamo dire tutto, tranne che abbiano il braccino corto. Ma, apparentemente, non ci facciamo impressionare. Torniamo da Sophia, al suo piccolo gruppo, autonomo ma assistito. Viaggia con Julie, pubblicitaria come lei, entrambe di Pechino. E con Mao, che ha studiato e vissuto a Parigi e ora lavora in una finanziaria a Shenzen, assieme a Lou, il suo compagno ingegnere. Sono amici, trentenni del ceto medio-alto, tra la terza e la quarta visita in Italia. Non volevano intrupparsi nei bus organizzati e hanno optato per una formula su misura. Dunque hanno contattato gli uffici cinesi di Voglia di Italia Tour che li hanno mandati da Steven Lai, che vive qui da tredici anni. «Volevano guidare. Ho affittato un’Audi Q5 e gli ho tradotto il codice della strada. Poi, se si stancano, li sostituisco al volante» dice questo ragazzone di Canton, con una padronanza linguistica incredibile per essere emigrato già adulto. Li incontro alle nove al Bernini Bristol, il cinque stelle all’imbocco della sfiorita via Veneto. E salgo sul Suv nero, con Julie alla guida, fiera dei Ray-Ban rivestiti di velluto blu che ha comprato il giorno prima. Sono già stati ad Alberobello, Matera, Costiera amalfitana e Pompei. Oggi Roma, domani Tivoli. Poi Venezia e Milano, gran finale mercantile.
Mentre loro vengono scorazzati sui sanpietrini dei Fori imperiali, Steven scarica sul computer centinaia di foto che hanno scattato e ora esondavano dalle memorie digitali («Ho anche rimediato un caricatore per iPhone. Cerco di risolvere ogni tipo di problema»). Un pacchetto che costa sui 10 mila euro a testa. Due settimane. Voli esclusi. Il prezzo della comodità. Tipo quella di non doversi più preoccupare di niente, men che meno di tirar fuori il portafogli quando andiamo a pranzo sul roof garden del modaiolo Hotel Orange, vicino ai Musei vaticani,
tappa del pomeriggio. Sophia viviseziona un’insalata mista, espellendo le cipolle («Non voglio alito cattivo»). Julie apprezza gli gnocchi ai calamari («Solo patate e farina? O anche uova?»). La pausa pranzo dura mezz’ora, prima dell’appuntamento con il professor Wei, autore di libri su Roma antica, che sarà la nostra guida.
Sorprendentemente Steven non ha prenotato. Ha un conto aperto con i Musei («Abbiamo depositato 5 mila euro per poter prenotare anche centinaia di biglietti») ma sperava che a quell’ora non ci sarebbe stato nessuno. Bagarini di ogni razza propongono biglietti salta la fila a 33 euro, contro i 16 normali o i 20 con prenotazione («È come il Frecciarossa contro un regionale» ci sfotte uno, vedendoci procedere a rilento). Fa un caldo assassino, illudendomi di conoscere il pragmatismo cinese scommetto che accetteranno. Invece Byu, l’assistente di Steven laureata in economia a Roma Tre, che si fa chiamare Gioia per facilitarci il compito, mi spiazza: «Forse si ricorderanno di questa attesa più che di altre cose. Come quando scoppia un acquazzone improvviso. Ci lamentiamo, ma si sta più vicini, per ripararsi, e magari scattano amori». Una saggezza che ricorda terribilmente il koan zen del contadino il cui figlio si rompe una gamba, che sembra una sfiga, ma alla fine si rivela una fortuna perché non andrà a morire in guerra. Una volta entrati, la temperatura non è molto migliore di quella esterna perché stanno rifacendo i condizionatori. Però la quantità d’arte è così sovrastante che fa dimenticare tutto il resto. Il prof Wei dovrebbero assumerlo al ministero della cultura: «Conosciamo i vini francesi, ma la vinificazione gliel’hanno insegnata i romani. Conosciamo Londra, ma la città fu fondata dai romani. Possiamo andare a Parigi da qui con una strada che fu costruita...». Il finale è noto. Spiega Adriano, l’imperatore gay; Laocoonte ed Elena, e il ruolo che ebbe nella guerra di Troia. Le cinesi vorrebbero che non smettesse più di parlare. E allora perché vanno più in Francia e in Spagna? «Forse più volentieri anche in Germania e Svizzera, se è per quello» puntualizza Maria Salvati, con la sua Jilitour decana del turismo cinese in Italia, «perché i tedeschi sanno fare promozione e quando vanno alle fiere in Cina offrono un Sistema Paese che comprende foreste, l’Oktoberfest e altre cose allettanti». Non le sfugge che, rispetto alla nostra dotazione naturale, sono quisquilie, però dice che è finito il tempo in cui i turisti cadevano dal cielo. Tocca impegnarsi. Saper vendere. E noi non sappiamo. «Dodici anni fa gli albergatori francesi mi invitavano per mostrarmi come si preparavano ai cinesi. Noi questi discorsi li abbiamo iniziati ora». Antonella Decandia, dopo una laurea in lingue orientali a Venezia, nell’85 viveva in Cina e ha messo a frutto quella conoscenza offrendo da tempo preziose consulenze turistiche con la sua Orientalia Lab. «Partiamo male ancor prima che arrivino. Per fare il visto c’è chi deve fare ore di treno per arrivare a un consolato, e qui scoprire che non ha tutti i documenti necessari. Gli altri Stati consentono verifiche online di quel che serve. Per non dire dei voli. AirFrance ha un sito tutto in cinese, non solo tradotto ma pensato per quella cultura. Mentre Alitalia rimase famosa per aver tolto i voli diretti con la Cina alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino. Speriamo in Etihad, che ha un approccio più globale».
Speriamo. Intanto registriamo che l’Enit, l’agenzia nazionale del turismo, tra le sedici lingue in cui teoricamente traduce il suo sito ha messo il cinese all’ultimo posto. E non va: non traduce, non dico i testi, ma neanche i titoli delle sezioni. «Beh, dai, da qualche mese a Fiumicino hanno messo delle scritte in cinese» si felicita Andrea Fan, contitolare di Europa 2000, un tour operator cinese con sede all’Esquilino e filiale a Tor Pignattara. Lavorano principalmente con le aziende cinesi o con privati ricchi. «A Natale ho avuto una famiglia che voleva vedere la messa col Papa. Erano in quattro e hanno preteso una guida in cinese e una in inglese per i figli che studiano in America. E due auto a noleggio». Conto per tre giorni: 15 mila euro. «Vogliono stare bene, mangiare e bere bene» prosegue questo trentenne laureato in statistica a Roma e in matematica a Londra, tornato solo per prendere in mano l’azienda di famiglia: «Trovano le stanze sempre un po’ piccole, rispetto agli standard patrii, e le città sporche». Motivo che spiega l’apparente paradosso per cui, nonostante apprezzino anche in trasferta la loro cucina, non li portano mai in giro per la Chinatown romana («I barboni non danno una bella immagine»).
La sicurezza, reale o percepita, è un tema. «Sui blog cinesi di viaggio “sicurezza” rivaleggia con “arte” tra i sostantivi più associati con “Italia”» constata Steven Lai, che nel frattempo è tornato a prenderci all’uscita dal Vaticano. Alcuni racconti dell’orrore hanno contribuito alla leggenda nera. Come quello della troupe venuta a dicembre per un documentario per Cctv, la tv pubblica, cui avrebbero rubato in camera anche le telecamere («Non è immagine positiva»). I cinesi, soprattutto i meno giovani, tendono a portarsi dietro un bel po’ di cash. «Una nostra cliente aveva dimenticato tutti i suoi 10 mila euro in una busta in un albergo a Firenze» racconta Byu «e se n’era accorta a Napoli, disperata. Siamo tornati e, in un cassetto, c’erano ancora. O le cameriere sono molto oneste oppure puliscono meno in profondità che da noi». Voglia di Italia lavora parecchio anche con le aziende. «Incentivi», li chiamano, ovvero i viaggi premio per i dipendenti che tante compagnie cinesi concedono. «Negli ultimi mesi abbiamo avuto 160 ospiti di Audi e 140 di Lenovo. In quei casi bisogna affittare vari bus e alberghi quasi interi. L’anno scorso abbiamo gestito 4 mila persone, quest’anno speriamo di più». Mao e Lou hanno bigiato i Musei per un’immersione totale nello shopping da cui riemergono carichi di buste. Due Prada, una Dior e una Max Mara. Tutte bianche ed enormi. In ognuna ci potrebbe essere l’equivalente monetario di una settimana tipo di vacanze dell’italiano in spending review. «Per loro conviene immensamente. La moda da noi costa almeno il doppio, poi si può riavere l’Iva e ora ci sono anche i saldi» dice Steven. Il privato l’ha capito. Da Cartier, fa notare la Decandia, hanno cinque commessi che parlano mandarino. Anche da Zegna e in ogni negozio per consumi opulenti. Il pubblico stenta. Se ritarda un altro po’, Turchia e Germania sono già pronte a sorpassarci. Non faranno storie per un bollitore. Né confusione tra ideogrammi storicamente incompatibili.