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 2014  luglio 18 Venerdì calendario

DA PETER PAN
A FREUD 
QUESTO È IL CAMMINO



A ben pensarci, siamo tutti (almeno un po’) fratelli, cugini e persino figli di Peter Pan in questo Occidente in cui si cresce (anagraficamente) molto più lentamente che nel passato. E nell’immaginario del Novecento c’è dunque davvero tanto del personaggio partorito dallo scrittore scozzese James Matthew Barrie (1860-1937).

 Il ragazzino volante dalla incontenibile fantasia divenne noto ai più con la pièce Peter Pan o il bambino che non voleva crescere, messa in scena il 27 dicembre 1904 al Duke of York’s Theatre di Londra, e salutata da uno straordinario gradimento degli spettatori, piccoli e grandi. Si trattò di uno dei maggiori successi teatrali di tutti i tempi, capace di sorprendere il pubblico, che conosceva Barrie come autore di malinconici drammi borghesi, con una storia (decisamente particolare) dedicata all’infanzia e accompagnata da uno sfavillio di costumi, trovate e modernissime macchine sceniche. La narrazione tanto applaudita in sala si sedimentò in termini narrativi nel libro del 1911 Peter e Wendy, ma rimase sempre al riguardo una certa ritrosia di Barrie, innamorato della pirotecnica versione teatrale (che gli regalò soldi e fama), montata senza badare a spese da uno dei big boss di Broadway, il produttore Charles Frohnam, anch’egli ammaliato dalla trama. 
Autentico «storytelling multimediale», la favola novecentesca di Peter Pan, quindi, va da un genere all’altro, e si esprime al meglio sulla scena, dal palcoscenico al grande schermo del cinema, come nel caso del film d’animazione del ’53 di Walt Disney, che ha scolpito nella testa di molti l’iconografia (tutta in verde) del nostro ragazzino, al pari di quella degli altri personaggi e comprimari, da Campanellino-Trilly a Capitan Uncino. Una vocazione crossmediale, come si direbbe adesso, caratteristica di tutti i campioni e i prodotti di grido della cultura di massa, che emigrano e saltellano da un medium all’altro.
E, soprattutto, una storia irrequieta, ambigua, e piuttosto «ibrida». Come la scelta «efebica» di far interpretare Peter a una ragazza, Nina Boucicault, figlia di un noto attore e manager teatrale. O come la stessa personalità piena di chiaroscuri di Barrie, uomo considerato buffo e divertente, ma anche estremamente tormentato, il quale si interrogò a più riprese a proposito della fatica di crescere. E come lo stesso protagonista, la cui duplice natura si ritrova già tutta nel nome: Peter il giovanissimo vittoriano che è, al medesimo tempo, come hanno sottolineato in tanti, Pan, la divinità pagana della natura e dell’eros. E se numerosissime erano state le fonti letterarie dello scrittore, tra fiabe e narrativa d’avventura (con pirati e pellirosse), il tutto era stato rielaborato all’insegna di una sensibilità fortemente intrisa del decadentismo di fine secolo (nonché colma di nostalgie bucoliche e attaccamento al folklore della Scozia d’origine). Esotismo ed evasione, dunque, ma rigorosamente a portata di mano, anzi, letteralmente, nel giardino di casa, dal momento che la vicenda prende le mosse dal parco londinese di Kensington, vicino all’abitazione di Barrie e della famiglia Llewelyn Davies, i cui figli ispirarono i personaggi delle storie. E in quel parco, «oltre la seconda stella a destra, e poi dritto fino al mattino», sta giustappunto Never Land (o Neverland), l’«isola che non c’è», a cui accedono soltanto i piccini, i «puri di cuore» come i «Bimbi sperduti», in virtù della loro inventiva e immaginazione.
Nell’aria dell’Inghilterra edoardiana di inizio Novecento si respiravano a pieni polmoni (oltre ai fumi della possente industrializzazione detestata dallo scrittore) parecchi desideri di emanciparsi dall’ingombrante pruderie della lunga era della regina Vittoria, con proiezioni di vario genere, da parte degli spettatori e dei lettori, sul preadolescente Peter. Il XX secolo è quello di Freud, ragion per cui, va da sé, l’eroe di Barrie sarebbe divenuto un contenitore di significati e un caso di studio ideale per una caterva di teorie psicanalitiche. L’ermeneutica psicologica si è così scatenata intorno alla figura dell’eterno fanciullo – e a quella del suo creatore, la cui visionarietà venne letta come diretta testimonianza della sua intenzione di non voler crescere. Nel 1983 esce il volume dello psicologo statunitense di scuola junghiana Dan Kiley The Peter Pan Syndrome (tradotto in italiano due anni più tardi con il titolo Gli uomini che hanno paura di crescere, Rizzoli), in cui si diagnostica la sintomatologia di chi non accetta di farsi uomo, ma non può prolungare oltre la condizione di ragazzo: il prototipo dell’adultescente (o, se si preferisce un termine hard ben conosciuto, del cosiddetto «bamboccione»). Sempre in ambito junghiano è circolata pure la tesi opposta, che vede nella psiche infantile «resistente» la sede della creatività individuale contro l’omologazione coatta e i disciplinamenti indotti dalla società. E, a ben guardare, come dicono altri studiosi, Never Land rappresenterebbe un luogo di incrocio tra i sogni degli adulti che vorrebbero rimanere, o tornare a essere, bambini e i desideri dei piccoli di diventare immediatamente grandi (tanto da riprodurne e copiarne i comportamenti).
 Di sicuro c’è che il fascino di Peter Pan colpisce ancora, e sembra infinito, come l’infanzia ininterrotta che vuole celebrare. Soprattutto nel multiforme universo delle arti, dalla sua versione manga di certi cartoni animati giapponesi a Il rock di Capitan Uncino di Edoardo Bennato, dal film Hook del 1991 di Steven Spielberg (con tanto di supercast che annoverava, tra gli altri, Dustin Hoffman, Robin Williams, Julia Roberts e Bob Hoskins) fino al Peter Pan appena presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto da Bob Wilson coi Berliner Ensemble. Perché per gli artisti vale, massimamente, uno slogan di Peter: «Non smettere di sognare, solo chi sogna può volare».