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 2014  luglio 18 Venerdì calendario

COGNOMI. DA ABA’ A ZUZZI, IL MEGLIO DELL’ONOMASTICA ITALIANA

Come si chiama di cognome la politica italiana? A giudicare dalla sua più recente performance proprio sulla questione dei cognomi di neonate e neonati, la politica non fa certo di cognome Razzi, né Fresco. Più adatti sarebbero cognomi come Vecchi o Fermi. Una spadoliniana «pausa di riflessione» ha infatti bloccato l’approvazione della legge che sembrava invece prossima a cancellare il tradizionale ricorso alla discendenza patrilineare del cognome. Ognuno e ognuna prende il cognome del padre, che l’ha preso da suo padre, a dare contenuto anche linguistico al nuziale, e cretino, «auguri e figli maschi».
Persino la Corte europea dei diritti (un organismo che non si immagina composto da sole filosofe del linguaggio e suffragette dell’8 marzo) ha giudicato negativamente la legislazione italiana in materia. Per un politico come Ignazio La Russa queste sono invece «velleità moderniste», che hanno l’inconveniente di «far litigare i componenti della coppia nel momento in cui diventano genitori». La dirittura d’arrivo della proposta di legge si è improvvisamente trasformata in un vicolo cieco: vuol dire che non solo La Russa ma il Parlamento desidera soprattutto scongiurare le velleità moderniste che l’Europa cerca di imporle, nonché i battibecchi coniugali. La famiglia tradizionale, secondo la dottrina La Russa, è caratterizzata dal vincolo di avere componenti che portano tutti lo stesso cognome. Ne discenderebbe che cugini e cugine da parte di madre sono un po’ meno parenti di quelli di parte di padre ma anche che John Elkann è una specie di usurpatore. In tutta la questione, insomma, trovare della logica o anche solo della banale ragionevolezza è altamente arduo. E sarà anche un pensiero pigramente estivo, ma non si può resistere al sospetto che la vera motivazione che sta dietro a tali sorde ma efficaci resistenze parlamentari sia il buon vecchio, e incrollabile, «perché no». I neogenitori non hanno il diritto di scegliere se dare un cognome, l’altro, o tutt’e due. Perché? Perché no.
Del resto la materia è proprio quella giusta. Sì perché per una parte rilevante (ma tutt’altro che totalitaria) della filosofia del linguaggio, il cognome, come ogni nome proprio, non ha significato, ma solo un riferimento diretto alla persona che lo porta. E se tutto è convenzione allora è inutile fare tanto baccano. Infatti sappiamo che la famiglia Rossi può avere incarnato pallidissimo e che lo stesso La Russa non ha mai avuto la minima simpatia per i Soviet. Ma chi ha studiato da vicino la difficile materia dei cognomi sa come si tratti di un campo di straordinaria articolazione, in particolare nel nostro Paese, dove la varietà è di molto amplificata da diversità di dizione, grafia, pronuncia. I linguisti Enzo Caffarelli e Carla Marcato hanno compilato un imponente Dizionario dei cognomi italiani in due volumi (Utet, 2008). Più recentemente, il primo ha scritto un agile e divertita rassegna di storie di nomi e di cognomi (Dimmi come ti chiami e ti dirò perché, Laterza, 2013).
Da Abà a Zuzzi i cognomi italiani sono 330.000. Una varietà che la nuova legge aiuterebbe peraltro a preservare meglio della vigente, ma pazienza. Che sia comparso nel Rinascimento o che sia un’invenzione (a volte crudele: Travaglio, Afflitto, Maldonato) da brefotrofio dei religiosi un cognome ha l’iniziale funzione di dare a una famiglia un’appartenenza geografica (Romani, Lombardi, Catalano) o professionale (Fabbri, Ferrari, Smith, Lefèvre e Fernández...). Non avendo ancora nessun cervello fino proposto leggi per costringere le persone a fare ciò che dice il loro cognome, succede che alcuni Ferrari producono per esempio vino e non oggetti in metallo; che poi il presidente Napolitano sia effettivamente nato a Napoli è quasi una bizzarria. Ogni individuo della stirpe conferisce un nuovo senso al cognome: gli fa onore con le azioni, lo distingue dagli omonimi con il successo professionale. Massimo onore, la «deonomastica»: il cognome che diventa un nome comune, come è accaduto al tipografo Bodoni o all’ingegnere Diesel. La vita di un individuo è il tentativo di dare un significato al significante puro, ricevuto ancora prima di nascere, del proprio cognome.
La tradizione, la radice, il blasone, la mitologia dell’identità, così apparentemente forti in Italia, possono opporre solo barriere simboliche ai mutamenti sociali reali: è per quello che oggi la società è lontana dalla politica. Nella realtà il modello tradizionale, due sposi che generano prole, è esploso da tempo e in particolare la paternità è diventato un istituto assai precario, come spiegano gli psicoanalisti (Massimo Recalcati, Cosa resta del padre?, Cortina, 2011); la maternità è invece una scelta sempre più consapevole. Ma all’ufficio dell’anagrafe tutto deve rientrare in una norma, non importa quanto ammuffita: anzi, la muffa è il pregio della norma, il suo vero nome è «tradizione». L’adozione, la fecondazione assistita e appunto l’onomastica, essendo materie di legge, sono gli unici baluardi che possono essere difesi. L’onomastica, in particolare, conferma la vocazione parolaia della politica. Non potendo governare le cose, si mantengono proibizioni e tabu sui nomi, anche se (o proprio perché) così si impedisce la libera scelta ai governati. Questo succede in un Parlamento le cui componenti politiche si richiamano in grandissima parte all’una o all’altra forma di «liberalismo». Forse la vera «velleità modernista» è proprio quest’ultima.