Roberto Mania, la Repubblica 18/7/2014, 18 luglio 2014
L’ALTRO LAVORO
Ebbene sì: nel Paese con oltre tre milioni di disoccupati, con quasi un giovane su due senza lavoro, con un tasso di occupazione tra i più bassi d’Europa, con più di cinque milioni di persone inattive, con un milione di posti cancellati dalla crisi, c’è chi di lavori ne ha due, e anche di più. Sono i doppiolavoristi. Stakanovisti italiani. Non per la Patria ma per se stessi. Per sbarcare il lunario o per autorealizzazione. Le storie di chi al mattino svolge un’attività e nel pomeriggio si dedica ad un’altra non sono tutte uguali. La lunga recessione c’entra ma fino a un certo punto. Anzi. Visto che dal 2008 in poi, quando i dipendenti della Lehman Brothers hanno lasciato mesti i propri uffici di New York con i cartoni in mano tramortiti dal crac della banca d’affari, i doppiolavoristi italiani sono diminuiti costantemente in valore assoluto ma sono rimasti stabili in percentuale a causa del crollo del monolavoro, falcidiato dalla recessione. E invece crescono, proprio per la crisi, anche come risposta al preoccupante fenomeno dei woorking poors, in altri Paesi europei — la Gran Bretagna, per esempio — dove le regole lavoro sono più leggere, la coesistenza tra lavoro dipendente e lavoro autonomo meno complicata, e l’economia sommersa molto meno diffusa.
Resistono, comunque, i doppiolavoristi. Superano di poco i quattro milioni e mezzo, un po’ più della metà sono irregolari, in nero, rappresentano circa il 40% del lavoro sommerso complessivo; ma gli altri sono regolari. Doppiolavoristi alla luce del sole. Senza differenze tra nord e sud, perché il doppio lavoro non dipende dal tasso di disoccupazione dell’area geografica. Sono uomini over 35, capifamiglia, perché nella divisione nazionale del lavoro la donna il secondo lavoro lo fa già in casa. Per circa il 40% il doppio lavoro è indito.
pendente perché la maggior parte degli stakanovisti ha una principale occupazione dipendente. E, a parte l’agricoltura, il vero regno del doppio lavoro tricolore, si concentra nei servizi, nuovi e tradizionali, e nel pubblico impiego dove la seconda professione può, in alcuni casi, essere autorizzata e non solo finire nelle cronache delle inchieste della Guardia di Finanza per colpa di funzionari o impiegati con la doppia, in questo caso, personalità: fannulloni scarsamente produttivi tra le scartoffie ministeriali, super efficienti nella seconda attività in nero, magari pure in conflitto di interessi. Oppure il bidello che fa l’elettricista, il geometra comunale con le consulenze sui progetti che ha firmasul
E così via.
Nell’industria praticamente non ci sono doppiolavoristi. Quelli regolari sono una percentuale irrilevante, gli altri sono spesso doppiamente irregolari perché cassintegrati o lavoratori in mobilità che però lavorano. Basta andare nel casertano, lì dove un tempo doveva nascere la Silicon Valley del sud e invece sono rimasti gli scheletri delle fabbriche hi tech italiane, i cassintegrati permanenti arrotondano l’indennità per il sostegno al reddito con i lavoretti in nero, elettricisti o informatici tuttofare.
Ma il doppio lavoro non coincide sempre con il fallimento del welfare state, frutto del lavoro fordista, o con la caduta delle illusioni prodotte dai progetti di industrializzazione senza industriali. Il doppio lavoro genera Pil, ricchezza e reddito. Così viene scovato nelle indagini dell’Istat. Non è nelle tabelle delle forze lavoro, infatti, che si trovano anche i doppiolavoristi. Lì non ci sono perché spesso il secondo lavoro è discontinuo (quindi non viene registrato se non c’è stato nella settimana precedente alla rilevazioni) ma soprattutto perché ci sono evidenti reticenze a dichiararlo. Dunque è nella contabilità nazionale che si trovano le posizioni lavorative. E sono (secondo gli ultimi dati dell’Istat) due milioni e 449 mila i secondi (o plurimi)
lavori non regolari e due milioni e 193 mila quelli regolari. Vuol dire il 18,9% della popolazione attiva. Ma se si esclude il lavoro agricolo nel quale il fenomeno del doppio lavoro è assai esteso (sono circa 800 mila i doppiolavoristi, in percentuale l’86,5) e tale da influenzare in maniera significativa ma distorsiva le statistiche (pensiamo solo alla diffusione del cosiddetto “metalmezzadro”, metà metalmeccanico e metà coltivatore), la percentuale totale dei doppiolavoristi (regolari e irregolari) scende al 16,3% sul totale degli occupati.
Roberto Perchiazzi, cinquantenne, tarantino, è un impenitente doppiolavorista. «Lo sono sostanzialmente da sempre», spiega. Oggi è un professore di sostegno in un istituto professionale di Taranto, dopo aver fatto per anni il docente a contratto all’ateneo della Lumsa. Ma dopo la scuola c’è il suo studio da commercialista. Lavora dalle otto di mattina alle otto di sera. Tutto regolare perché è stato autorizzato a svolgere la sua seconda attività professionale. Perché lo fa? «Non c’entrano i soldi », risponde. «Ho studiato tanto, non posso ridurmi a fare esclusivamente l’insegnante. Questa è la vera motivazione». E dunque, nessun senso di colpa nei confronti di chi non ha alcun lavoro. «Non rubo il posto a nessuno. Anzi: aiuto i giovani
a trovare un lavoro. Se facessi solo l’insegnante non sarei in condizioni di sostenerli. Mi chiedono come fare un curriculum, come aprire una partita Iva e così via. Se non fossi aggiornato sulle norme, come deve esserlo un commercia-lista, non darei loro alcun aiuto».
I doppiolavoristi, in realtà, svolgono «spezzoni» di lavoro, come li definisce il sociologo del lavoro Emilio Reyneri dell’Università di Milano Bicocca. Spezzoni che ricomposti tutti insieme non danno vita a un lavoro standard a tempo pieno. Il secondo lavoro è molto spesso legato al medesimo sog-
getto che lo esercita, alla sua professionalità, alla sua rete di rapporti costruiti in genere proprio in forza della prima occupazione, alla sua affidabilità, pertanto. Messo così il secondo lavoro — in particolare quello regolare — non toglie opportunità ai più giovani o ai non occupati. È un fenomeno a sé. L’abolizione del secondo (o terzo) lavoro non creerebbe più occupati. «Ci sono attività — spiega Reyneri — che possono essere svolte solo come secondarie». Qualche esempio? Le consulenze, le traduzioni, molte attività nel campo dello spettacolo e del tempo libero, le ripetizioni. Qualcuno conosce un insegnante di educazione fisica in una scuola che non abbia anche una seconda attività in una palestra o in un’associazione o circolo sportivi? Sono lavori spezzati e che tali sono destinati a restare. «Il doppiolavorista — ha scritto Reyneri nella sua “Sociologia del mercato del lavoro” — è una figura mista, che con un piede nell’area regolare e tutelata del mercato del lavoro e l’altro in quella precaria e spesso irregolare mira a sfruttare i vantaggi della doppia collocazione ». “Il lavoro e il suo doppio”, insomma, come efficacemente si intitolò un’ampia indagine sociologica (l’unica rimasta in questo campo) sul secondo lavoro condotta tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta da un gruppo di studiosi coordinati da Luciano Gallino. Un’inchiesta che gli attuali dati dell’Istat confermano nelle grandi linee, nonostante la crisi, nonostante le trasformazioni nell’organizzazione del lavoro e nei processi di produzione.
E allora, senza considerare l’agricoltura per le anomalie già viste, è sempre di più nel terziario che si addensano i secondi lavori: circa il 20% del totale. Doppiolavoristi negli alberghi, nei pubblici esercizi, nei trasporti, nei servizi domestici. La grande domanda di doppio lavoro arriva dalle piccole imprese ma soprattutto dalla famiglia. E questo spiega perché i settori che più hanno ridotto il doppio lavoro con l’esplodere della grande crisi sono stati il turismo e il lavoro domestico. Il reddito disponibile delle famiglie si è assottigliato. E se oggi la famiglia sta male, anche il doppio lavoro non se la passa più tanto bene.