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 2014  luglio 18 Venerdì calendario

E PER L’ONU LA PRIVACY DIGITALE DIVENTA UN DIRITTO DELL’UOMO

Il rischio che tutte le comunicazioni degli italiani siano intercettate per la scarsa sicurezza degli Internet exchange point, i luoghi in cui avviene lo scambio del traffico tra i diversi operatori web che vi sono connessi, è il fulcro del rapporto segreto degli ispettori del Garante della privacy rivelato ieri da Repubblica. Ma la soluzione non può risiedere unicamente in una risposta — pur necessaria — allo specifico problema entro i nostri confini. Scrive infatti in uno studio appena pubblicato l’ufficio di Navi Pillay, Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni unite: la sorveglianza digitale è divenuta in tutto il mondo «una pericolosa abitudine più che una misura straordinaria». Come si evince dall’analisi intitolata “Il diritto alla privacy nell’era digitale”, in gioco c’è niente meno che il rispetto del più ampio ventaglio dei diritti umani: la libertà di espressione e associazione, la tutela dell’intimità familiare ma anche il diritto di rimanere anonimi se ritenuto indispensabile per comunicare informazioni sensibili riguardo alla propria salute. Ciò che va riaffermato è la base stessa di quei diritti, così da renderli effettivi anche nell’era del Datagate. Grazie alle attuali tecnologie a disposizione dei governi in tutto il mondo, sorvegliare la cittadinanza costa infatti sempre meno, non conosce più limiti di estensione e durata e, si legge, «la capacità di condurre sorveglianza simultanea, invasiva, mirata e su larga scala non è mai stata così grande». È la conferma dell’incubo di controllo totale della statunitense National security agency rivelato dall’archivio di Edward Snowden, ma anche una sua inquietante contestualizzazione che costringe a spingersi al di là delle operazioni degli Stati Uniti e dei suoi alleati.
Il testo dell’Alto commissariato dell’Onu va molto oltre la semplice condanna, peraltro già contenuta in un documento approvato lo scorso dicembre che stabiliva, senza troppi giri di parole, che i diritti tutelati offline devono essere protetti anche online. E stila un vero e proprio profilo giuridico dei limiti che il diritto internazionale fornisce a qualunque progetto di controllo digitale. In un mondo in cui ci sono «indicazioni credibili» che le informazioni ricavate dai programmi di sorveglianza di massa abbiano «condotto a torture e maltrattamenti», e perfino costituito la base per attacchi letali tramite droni, servono maggiori garanzie per sottrarre i cittadini a intrusioni «arbitrarie o illegali» nelle loro vite.
Ciò non significa, precisa il rapporto, che ovunque ci sia una legge il problema sia risolto. Anzi, procedure opache — o peggio, come nel caso della sorveglianza Nsa, segrete — non bastano a legittimare il monitoraggio dei nostri dati. Al contrario, le norme devono essere «sufficientemente accessibili, chiare e precise, così che chiunque possa consultarle e sapere chi è autorizzato al controllo e in quali circostanze». E vanno rispettati i principi di «necessità» e «proporzionalità», nella consapevolezza dunque che sia sorvegliato solo lo stretto indispensabile, che ciò porti a risultati concreti (spetta al governo dimostrarli), e soprattutto che «ogni limitazione al diritto alla privacy non debba rendere insignificante l’essenza di quel diritto»: una conclusione che troppo spesso affiora alle labbra di chiunque abbia letto le rivelazioni prodotte da Snowden nell’ultimo anno.
L’Ufficio di Pillay si spinge poi ancora oltre, affermando che «la mera esistenza di un programma di sorveglianza crea una intromissione nella privacy», ed è per questo che i limiti alle ingerenze dei governi devono essere stringenti. Coinvolgendo, è l’oggetto della parte finale del resoconto, anche i soggetti privati dei quali sempre più si servono per attingere ai nostri dati. La collaborazione, in altre parole, non deve diventare complicità. Per evitarlo, le aziende che li detengono devono prevedere procedure per identificare, valutare, prevenire, contrastare e porre rimedio a eventuali abusi. E devono alzare la voce con le autorità, pretendendo un mandato giudiziario a giustificazione delle loro richieste e fornendo la massima trasparenza agli utenti. Senza strutture sicure, tuttavia, difficile possa bastare a ridare fiducia ai cittadini in rete.