Federico Fubini, la Repubblica 18/7/2014, 18 luglio 2014
LE AZIONI DELLE BANCHE POTREBBERO FINIRE AL FONDO DELLA CDP
C’è una vicenda parallela che si snoda attorno al caso Alitalia, assieme ai negoziati con gli acquirenti di Etihad. Non riguarda la compagnia di Abu Dhabi, ma il ruolo delle grandi banche italiane nel capitale e il loro rapporto con il governo. E se fino ad oggi è rimasta riservata, è perché tocca il nervo più sensibile: l’idea che, in modo più o meno diretto, siano i contribuenti e i risparmiatori italiani a farsi carico ancora una volta dei rischi dell’ex compagnia di bandiera.
Intesa Sanpaolo e Unicredit, in quest’ordine, sono banche con la maggiore esposizione verso Alitalia. Entrambe già socie, rispettivamente dal 2009 e dall’autunno scorso, mentre adesso circa un terzo dei loro crediti dovrebbero essere convertiti in azioni. Negli ultimi mesi entrambe hanno contribuito a tenere l’azienda in vita con nuove linee di credito su richiesta del governo, mentre si cercavano nuovi soci industriali. Il sostegno delle banche non era scontato, visto il vincolo legale dei loro manager a offrire finanziamenti solo a gruppi che sembrino capaci di ripagarli. Tra azioni e crediti, l’esposizione totale dei due primi istituti italiani su Alitalia supera ormai i 640 milioni di euro. Ma a fronte dei rischi assunti ora Intesa e Unicredit chiedono al governo quella che i tecnici chiamano una “way out”:
letteralmente una via d’uscita. Le banche hanno assecondato il governo evitando di staccare la spina alla compagnia aerea, ma adesso chiedono la certezza di
poter vendere le loro quote in Alitalia a un’entità terza.
È qui che entra in scena, poco sorprese, la Cassa depositi e prestiti. Controllata dal Tesoro all’80,1% (le fondazioni hanno un altro 18,4%), Cdp gestisce circa 240 miliardi di risparmi degli italiani depositati in Banco Posta e i suoi conti restano fuori dal bilancio dello Stato. I suoi debiti, contabilmente, non accrescono il debito pubblico. Anche per questo la richiesta delle banche
di cedere tra qualche tempo le loro quote Alitalia alla Cassa ha trovato ascolto in vari settori del governo, a partire dal ministro delle Infrastrutture e Trasporti Maurizio Lupi. L’idea a cui si è lavorato nelle ultime settimane è quella di una vendita delle azioni al Fondo Strategico Italiano, controllato da Cdp all’80% e guidato da Maurizio Tamagnini. Uscito da Alitalia con il fallimento del 2008, rientrato tramite Poste nel 2013, lo Stato completerebbe così il suo ritorno nella compagnia.
Su questo scenario, nell’ultimo mese si è consumato il duello dietro le quinte fra i protagonisti. Giovanni Gorno Tempini, amministratore delegato di Cdp, non intende impegnarsi a rilevare le azioni Alitalia che le banche non vogliono più. Ancora meno vuole che il passaggio si faccia a un prezzo prefissato. Gorno Tempini sottolinea che, a differenza dell’Iri, la Cdp è obbligata per legge e per statuto a investire solo in imprese “in stabile equilibrio economico e finanziario”: niente a che vedere con la nuova Alitalia, che ha accumulato solo perdite e debiti da quando è ripartita nel 2009. Per questo i vertici di Cassa si sono opposti alle pressioni delle banche e del governo. Alla fine, si è arrivati a un precario compromesso: il Fondo Strategico dichiarerà (in privato) che è disposto a esaminare l’opzione di comprare le quote delle banche, se e quando il piano industriale per Alitalia verrà eseguito e la compagnia risanata. Niente che faccia pensare che la partita fra banche e governo sia chiusa. La voglia di interventismo statale, nel pubblico e nel privato, non è tramontata con il governo di Enrico Letta.