Antonella Olivieri, Il Sole 24 Ore 18/7/2014, 18 luglio 2014
FINE DI UN’EPOCA MA LA RIVOLUZIONE È PARTITA DA LONTANO
La riscrittura del patto Mediobanca è soltanto l’ultimo atto di una rivoluzione – lenta, ma costante come un bradisisma – che viene da lontano. Lontano almeno quanto l’ultimo ricambio generazionale – alla terza leva con Alberto Nagel e Renato Pagliaro – dell’istituto fondato da Enrico Cuccia. E tuttavia, anche se il nuovo patto ratifica una situazione di fatto, in qualche modo è la fine di un’epoca. Risale al 1988 l’assetto che assegnava il controllo (allora assoluto) della prima banca d’affari italiana a una compagine paritetica formata da soci pubblici da una parte – le banche d’interesse nazionale Comit, Credit e Banco di Roma – e soci privati dall’altra – le imprese, il "meglio" del capitalismo nostrano – che si ritagliarono uno spazio nel capitale dell’istituto comprando azioni dalle Bin. Erano tempi, comunque, nei quali di fatto la governance era ribaltata e Cuccia imperava sui suoi azionisti.
La formula aveva già subito mutazioni nel 2001 con l’ingresso nell’azionariato di controllo della compagine transalpina capitanata da Vincent Bolloré, "invitata" dall’allora ad Vincenzo Maranghi. Ma è appunto una decina d’anni fa, con l’ascesa al vertice dell’attuale management, che la scossa alla tradizione diventa più evidente. La terza generazione promuove da subito l’ampliamento del flottante, arrivato nell’ultimo anno, in parallelo con il ridimensionamento del perimetro del patto, a sfiorare il 70%. E inizia a smantellare le quote azionarie, una fitta ragnatela di partecipazioni (anche incrociate) tessuta in mezzo secolo d’attività. Fino ad arrivare al piano industriale in corso che infrange gli ultimi tabù: fuori da tutti i patti e niente più partecipazioni strategiche eccetto Generali, anch’essa però in via di ridimensionamento.
L’accordo di sindacato resiste comunque, a presidio di una catena che conduce alla più importante multinazionale finanziaria che l’Italia possa vantare, ma scende a patti coi tempi. Meno vincoli per i partecipanti, nocciolo duro ridotto al 25%, pragmatica considerazione che per "contare" bisogna investire, ma minori condizionamenti sulla gestione. Tant’è che nelle nuove regole spariscono i codicilli che assegnavano all’azionariato di riferimento il compito di designare i comitati che, invece, buona governance vuole che siano espressi dal consiglio e con una prevalenza di amministratori "veramente" indipendenti. Ma la maggioranza relativa, cui spetta ancora di indicare (almeno finchè non cambia lo statuto) tutti i consiglieri meno uno, dovrà comunque decidere, al suo interno, con il consenso di una maggioranza "qualificata" dei due terzi, senza la quale i soci del patto sarebbero liberi di presentare proprie liste in teorica competizione. A suo modo "democrazia partecipativa", accoppiata però al riconoscimento di una gerarchia nell’azionariato di riferimento, dove c’è un "primus" – UniCredit che, con la quota maggiore (8,6%), ha diritto a nominare un vice-presidente – e un secondo – Bollorè, oggi al 7%, ma già autorizzato a salire all’8% – che a sua volta può indicare un vice-presidente, ma solo se convince gli altri azionisti rilevanti.