Massimo Gaggi, Corriere della Sera 18/7/2014, 18 luglio 2014
MICROCHIP NEL CORPO, UNA FRONTIERA INSIDIOSA
Quando, più di dieci anni fa, Sergey Brin, cofondatore di un’azienda già allora sulla cresta dell’onda, Google, raccontò il suo sogno – l’uomo che riceve tutta la conoscenza della quale ha bisogno attraverso un microchip impiantato nel cervello – un brivido corse lungo la schiena di chi lo ascoltava. Si preoccuparono anche gli uomini dell’azienda californiana, e infatti Brin non parlò più della cosa per anni. Non per questo lui e i suoi scienziati smisero di pensarci, consapevoli che la tecnologia spinge comunque in quella direzione.
Questo era anche il nostro sospetto, ma pensavamo che i governi avrebbero posto limiti etici e introdotto forme di controllo delle tecnologie più invasive. Soprattutto quello statunitense: vieta di fumare quasi dappertutto, proibisce l’uso di bevande alcoliche non solo ai minorenni ma anche a chi non ha ancora 21 anni. Vuoi che non si opponga alla trasformazione dell’uomo in un «cyborg»? Beh, da qualche giorno abbiamo una risposta a questa domanda. E la risposta è no. Anzi, è proprio il governo federale attraverso il Pentagono – o meglio la sua agenzia tecnologica, la Darpa – a promuovere l’impianto di microchip nel cervello.
Intendiamoci: il fine dei contratti siglati pochi giorni fa dal governo federale coi centri di ricerca di due università, quella della California (Ucla) e quella della Pennsylvania (UPenn), e con due aziende che già lavorano sul rapporto tra cervello e intelligenza artificiale, Medtronic e Neuropace, è condivisibile: aiutare i soldati con ferite alla testa a recuperare la memoria perduta sul campo di battaglia. Ma, una volta che la nuova tecnologia sarà disponibile, potrà essere utilizzata in molti altri modi, alcuni dei quali inquietanti. E non ci sono molti margini d’intervento: quella di limitare lo sviluppo della tecnologia digitale è, ad oggi, una pia illusione. Soprattutto se c’è di mezzo il Pentagono: da sempre il vero motore della ricerca e dell’innovazione tecnologica americana (Internet viene da qui come anche l’auto elettrica delle industrie di Detroit). I nuovi strumenti, poi, vengono presentati come l’unica speranza per curare non solo terribili ferite e traumi, ma anche malattie fin qui considerate quasi intrattabili come il morbo di Parkinson, l’epilessia e, in prospettiva, l’Alzheimer.
Il microchip impiantato chirurgicamente all’ingresso dell’ippocampo, il centro della formazione della memoria, dovrebbe aiutare i feriti di guerra, ma verrà usato anche per combattere la perdita di consapevolezza di chi ha l’Alzheimer. Altri tipi di chip, capaci di stimolare le funzioni motorie, vengono, poi, già sperimentati su migliaia di pazienti epilettici o affetti dal Parkinson. Altri stanno sperimentando chip che, installati nel cervello, restituiscono un uso parziale delle mani a pazienti paralizzati. Chi può criticare questi sforzi?
Ma, avverte Arthur Caplan, un ricercatore della New York University ex collaboratore della Darpa, quando modifichi i meccanismi mentali, alteri anche la consapevolezza che ognuno ha di se stesso. Chi garantisce che i governi prima o poi non useranno queste tecnologie anche, ad esempio, per costruire soldati mentalmente più violenti e aggressivi, meno «condizionati» dalla loro coscienza?