Paolo Franchi, l’Espresso 18/7/2014, 18 luglio 2014
QUELL’ESTATE DEL GOLPE
Mezzo secolo dopo, su cosa effettivamente sia capitato in quel luglio del 1964 ci si divide ancora. Davvero l’Italia corse il rischio di un colpo di Stato simile a quello condotto in porto, tre anni dopo, dai colonnelli greci, davvero iniziò allora la strategia della tensione? Oppure quella del tentato golpe è una leggenda, e il Piano Solo, compresi i 731 "enucleandi" da deportare in Sardegna, non fu che "un’interpretazione estensiva e autonoma" del piano di emergenza speciale per l’ordine pubblico predisposto dalla polizia già nel novembre del 1961? Le ricerche più recenti e documentate, a cominciare ovviamente dal libro di Mimmo Franzinelli, fanno propendere per la seconda interpretazione. Sicuramente il comandante generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo, già capo del Sifar e futuro capo di Stato Maggiore dell’Esercito, schedò, brigò (in primo luogo con il presidente della Repubblica, Antonio Segni), ricattò, blandì, minacciò, ma all’instaurazione di una dittatura militare in Italia non pensò mai. E, se mai avesse carezzato una simile possibilità, avrebbe dovuto scartarla in partenza. Perché non solo il Vaticano, ma soprattutto, gli Stati Uniti, non volevano nemmeno sentirne parlare: per l’amministrazione americana di riforme, anche coraggiose, c’era bisogno, e il centro-sinistra non rappresentava l’anticamera del comunismo, ma l’unico modo per tagliargli l’erba sotto i piedi.
Ma non è tanto di golpe, o non golpe, che merita parlare. Quel luglio è stato davvero uno spartiacque della storia italiana, e anche della rappresentazione che di questa storia gli italiani si danno. Fino a quel punto, la grande maggioranza di loro era stata convinta, in parte a torto, molto a ragione, che il gioco politico fosse tutto o quasi nelle mani dei partiti e dei loro leader, sulla scena sin dalla Resistenza, dalla Liberazione e dalla Costituente. Da allora, non è più stato così, e certo non solo per via del generale De Lorenzo, che pure la Resistenza l’aveva fatta, meritandosi la medaglia d’argento, e per questo era tutt’altro che inviso ai comunisti (della sua piena affidabilità democratica si era fatto garante Arrigo Boldrini, il mitico comandante Bulow), del presidente Segni e dei dorotei. La novità è un’altra: il confronto, e lo scontro, sulla formula, il programma e la composizione del nuovo esecutivo (il primo governo "organico" di centro-sinistra, presieduto da Aldo Moro, era caduto il 26 giugno sui finanziamenti alla scuola privata) non ha più per protagonisti solo o soprattutto i partiti, in primo luogo la Dc e il Psi. Più precisamente: la dinamica delle forze politiche, impegnate in estenuanti trattative, e a dir poco divise al loro interno, è pesantemente e apertamente condizionata, ma sarebbe più giusto dire ricattata, come si evince facilmente dalla lettura della grande stampa italiana di quei giorni, da altri poteri. A cominciare da quelli economici e finanziari, che considerano una iattura, di sicuro per se stessi, e magari anche per il paese, il proseguimento dell’alleanza tra democristiani e socialisti. Tanto più se a guidarla rimarrà Moro. E se il Psi, la sinistra dc e i laici riformatori punteranno i piedi a difesa di misure a un tempo cervellotiche ed eversive, dalla programmazione economica alla riforma urbanistica e alla istituzione delle Regioni a statuto ordinario. Quelli che, più tardi, saranno chiamati i "poteri forti" possono contare da mesi molti portavoce nelle istituzioni e nello stesso governo: i più autorevoli - il governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, il ministro del Tesoro, Emilio Colombo, e il presidente del Senato, Cesare Merzagora - hanno un convinto sostenitore nel vicecommissario della Cee, Robert Marjolin. Sotto l’egida di Segni, che il centro-sinistra lo vive come un incubo, e non nasconde la sua insofferenza verso Moro, si profila per la prima volta la soluzione di un governo di emergenza, o di salvezza nazionale, o di salute pubblica, finalmente libero dalla soffocante ipoteca dei partiti, legittimato da una situazione economica certo grave, ma rappresentata come catastrofica. A presiederlo potrebbe essere un democristiano (Giovanni Leone?) o, meglio ancora, Cesare Merzagora, che butta giù anche una sua lista dei ministri: vorrebbe almeno due "tecnici" di alto rango, Donato Menichella ed Enrico Cuccia, in un esecutivo che comprenda anche una presenza missina (l’ex ministro del Duce Arnaldo di Crollalanza) alla "Riforma della burocrazia" e una comunista, chissà perché alle Ferrovie, curiosamente riservate, a dimostrazione che persino nelle nostre vicende più inquietanti una nota vagamente comica non manca mai, all’ "enucleando" Luigi Longo.
Quanto alle misure repressive e liberticide previste nei dettagli dal Piano Solo, sembrerebbero servire anzitutto da deterrente, ma potrebbero anche diventare decisive per placare i bollenti spiriti delle sinistre, qualora queste reagissero mobilitando la piazza, come hanno fatto appena quattro anni prima contro il governo Tambroni. Ma forse stavolta un simile rischio potrebbe anche non esserci. Perché i comunisti optano, curiosamente, per un doppio binario. Fanno scattare tutte le misure di "vigilanza democratica" (all’epoca si chiama così) previste in caso di torbidi, e non lo nascondono, anzi, lo chiariscono quasi ogni giorno sull’ "Unità". Ma Palmiro Togliatti, che le sue iniziali mezze aperture al centro-sinistra le ha già archiviate, allo "spauracchio" della reazione alle porte non crede proprio: Pietro Nenni, che a suo giudizio si lascia consapevolmente menare per il naso dai dorotei, lo fa solo per «strappare e imporre l’accettazione di una politica sbagliata». E il governo di emergenza? Per Nenni, «nella realtà del paese qual è» sarebbe «il governo della destra, con un contenuto fascistico-agrario-industriale». Per Togliatti, invece, ce ne potrebbero essere di tanti tipi, ciascuno dei quali richiederebbe un atteggiamento diverso, non necessariamente ostile, da parte dei comunisti: meglio andarci molto cauti, prima di gridare al lupo e di dare ai socialisti una mano che non meritano.
Come è noto, alla fine, non ci sarà né un ministero di salute pubblica né un impossibile ritorno al centrismo, ma un nuovo governo Moro-Nenni, destinato a durare fino al fatidico Sessantotto. Allora, tanto rumore per nulla? Non è così, come testimonia la cronaca della giornata chiave, il 16 luglio (il giorno dopo, alle tre del mattino, sarà raggiunto finalmente l’accordo, al ribasso, per il nuovo esecutivo: Segni che di buon mattino riceve De Lorenzo e lo rende noto, il generale che, lasciato il Quirinale, se ne va a casa di Tommaso Morlino per un inopinato vertice con Moro, lo stato maggiore democristiano e il capo della polizia Angelo Vicari, Nenni che in serata denuncia il "tintinnio di sciabole" che fa da pesante sfondo alla crisi … Le "reazioni del sistema", di cui parlerà più tardi Moro, non coglieranno l’obiettivo principale, ma saranno più che sufficienti a mettere definitivamente la sordina alle ambizioni riformatrici del primo centro-sinistra, e pure a rendere incolmabile il solco, già profondo, che divide i socialisti e i comunisti. In quell’estate di mezzo secolo fa, in tempi in cui la critica allo strapotere della partitocrazia è ancora appannaggio pressoché solo della destra, Parlamento e partiti hanno avvertito improvvisamente la possibilità molto concreta di essere scavalcati e messi sotto scacco. È la prima volta. Non sarà l’ultima.