Daniele Stefanini, l’Espresso 18/7/2014, 18 luglio 2014
«HO SPENTO LA TV E LA SERA VADO AL PORTO»
Filippo Nogarin dà l’impressione di non aver ancora superato lo stupore di essere lì, nelle grandi stanze del Municipio di Livorno, ad amministrare la città storica della sinistra, quella che nel 1921 aveva dato i natali al Partito comunista italiano e che dal dopoguerra ad oggi si è guardata bene da accettare un sindaco di diverso colore. E invece questo quarantenne dal faccione cordiale e dai modi amichevoli, ingegnere aerospaziale e grillino della prima ora, si è trovato a intercettare il malcontento di una Livorno stanca e provata dalla crisi, ma anche desiderosa di un cambiamento che rompesse quell’incantesimo politico che la inchiodava a rimanere la città simbolo della sinistra novecentesca. Così Nogarin, che al primo turno aveva ottenuto un appena dignitoso 19 per cento, si è preso al ballottaggio i voti della destra e delle varie liste civiche di sinistra, insieme a quelli sparsi di tassisti, portuali, disoccupati, albergatori, commercianti, tutti intenzionati, come dichiarano senza entusiasmi, a provare "qualcosa di nuovo". Un sindaco per caso insomma, che però si propone di prendere maledettamente sul serio il suo mandato.
Allora, sindaco, come si sta su questo scranno appena un mese dopo?
«In piena accelerazione. Devo studiare rapidamente un sacco di problemi. Ho una preparazione vasta, ma ora si tratta di approfondire nella stessa giornata la questione dei rifiuti e quella dell’aeroporto di Pisa».
Dica la verità, si sarebbe mai aspettato di trovarsi qui?
«La verità è che non sono stato io a propormi. Lavoravo in un gruppo, volevo solo dare un contributo. Poi gli altri mi hanno spinto: "Filippo, devi riconoscere che tocca a te!"».
Come si era conquistato questa credibilità?
«Semplicemente vivendo. Ero nel fiore della mia professione e nel giro di pochi giorni ho dovuto abbandonare tutto. Con la consapevolezza che mai più riavrò la mia vita».
Però era anche un militante 5 Stelle di lungo corso.
«Seguo Grillo da sempre. Prima assistendo a tutti i suoi spettacoli di rottura, quelli in cui diceva di buttare lo spazzolino e conservare il manico. Poi, con i primi V-day, l’ho seguito nella fase propositiva. E oggi sono in pieno accordo sul programma di governo. Non intendevo essere qui, ma ora ci sono e ho capito che Livorno si aspetta molto da me».
Che cosa intende fare per non deluderla?
«Per cominciare, tutto il contrario di quanto ha fatto finora il Pd, autoreferenziale e impermeabile verso qualsiasi istanza esterna. Io voglio ascoltare questa città che era e resta profondamente rivoluzionaria. Posso farlo perché sono immerso nel suo mare magnum di umori, di pensieri, di volontà. Questa è la livornesità che io amo e che mi appartiene. E parlerò con tutti».
Anche con gli anarchici, che sono un’anima antica della città?
«Impossibile. Che anarchici sarebbero se venissero a discutere con me? Li conosco quasi tutti: un giorno mi sfottono, un giorno mi strizzano l’occhio. Sono fantastici, e inattendibili».
In questo mese l’hanno vista spesso passeggiare di notte per il porto. Che cosa ci va a fare?
«A parlare, appunto. A sentire che cosa non va. Poi non manco di ascoltare anche i dirigenti, ma è dagli operai del turno di notte che ho una visione dei problemi del porto. Come tutti gli oppressi non hanno la necessità di mentire. Glielo dice uno che viene da una famiglia molto modesta».
Ne parla come se fosse un imprinting necessario per fare politica.
«Forse è così. Un padre operaio e una madre casalinga mi hanno dato la dimensione della realtà, un nonno contadino mi ha avvicinato alle cose che contano davvero».
Ce ne dica una.
«La semplicità. Nonno Pilade, un uomo umile che faceva il casiere vicino al mare, mi ha insegnato a camminare nella vita rimanendo sempre in contatto con la parte più semplice e "terrena" di noi stessi».
Però lei tanto semplice non sembra. Fosse solo per il fatto che ha fatto studi complessi ed è ingegnere aerospaziale.
«Quella è un’altra storia. Se vuole gliela racconto, anche se è estremamente delicata».
Sentiamo.
«Nella mia formazione entra in scena un secondo padre, nel senso letterale del termine, perché si è preso cura di una parte di me che la mia famiglia non poteva seguire. Si chiamava Franco Demot, era il padre di un mio grande amico, che è morto a vent’anni in un incidente stradale. Ora è morto anche lui, quindi non si meravigli se mi sto commuovendo».
Me ne guardo bene. Continui.
«Mi sono avvicinato al lutto di Franco a piccoli passi, impaurito dal suo grande dolore. Ma tra noi c’era già un rapporto di grande empatia che è cresciuto negli anni fino a renderci molto vicini. Lui, che era un informatico molto bravo, ha ritrovato una funzione paterna portandomi per mano ad amare la scienza. Io, grazie ai suoi insegnamenti, ho trovato la mia strada e mi sono iscritto all’università di Pisa».
È stato facile arrivare a laurearsi?
«No. Ho faticato molto e ci ho messo molti anni. Venivo da un istituto tecnico industriale e non avevo una grande formazione. E poi ho un carattere eclettico che ha creato problemi anche ai miei insegnanti. Il giorno che mi sono laureato, il mio relatore, professor Lanciotti, ha concluso la discussione dicendo: "Ok. Adesso che ho visto tutto, posso anche andare in pensione!"».
Era la sua tesi che l’aveva sconcertato?
«Soprattutto il mio carattere, ma certo anche la tesi non era delle più ordinarie. Avevo progettato un generatore eolico e lo stavo realizzando all’interno dell’Erga, una società del Gruppo Enel».
È una procedura normale?
«Mica tanto. Ma io ho bussato all’Enel e ho detto: "Ho un’idea. Me la fate realizzare?". Mi hanno risposto: "Crediamo nella tua idea e puoi portarla avanti qui dentro. Ti diamo carta carta bianca ma non ti diamo una lira". Ho lavorato per diciotto mesi e, in verità, qualche lira mensile alla fine me la davano. Poi il progetto è stato venduto a caro prezzo all’Eolica impianti».
Ha avuto la sua parte?
«Niente. Ma tant’è, io già mi mantenevo facendo la libera professione come informatico, poi ho messo su uno studio di ingegneria, poi ho creato tre società, una informatica, una logistica, una di geolocalizzazioni... Poi mi sono specializzato come problem solver. Sono, anzi ero perché ho lasciato tutto, molto richiesto dalle aziende come consulente per risolvere ogni tipo di problema».
Per esempio?
«Mi piace raccontare quello di un’azienda avicola che vedeva morire molti polli senza capirne il motivo. Un ingegnere aerospaziale ci ha messo poco a capire che erano sbagliati i cicli d’aria, o troppo caldo o troppo freddo. Ora i polli hanno migliorato per quanto possibile la loro breve vita là dentro: 54 giorni e poi al macello!»
In una sua biografia su Internet c’è un accenno a una formazione in Programmazione neurolinguistica umanistica, una specie di psicoterapia che aiuta a socializzare. È li che ha imparato a essere tanto disinvolto?
«Macché, ci sono andato per un solo motivo: capire in profondità i meccanismi del mondo della comunicazione. Ho fatto tre anni di corso e, come conclusione, ho spento la tv, ho staccato l’antenna e da allora, era il 2008, non ho più visto un minuto di televisione».
Ma adesso che è un politico di spicco non sente la necessità di conoscere anche la lettura della realtà che dà la tv?
«Neanche un po’. Anzi, mi sento felicemente depurato e intendo restare fuori dalla potenza di fuoco che quel mezzo spara nel subconscio del telespettatore».
Sentiamo allora come occupa il suo tempo libero, se ancora ne ha.
«Non ho più un minuto, ma se avessi tempo potrei scegliere tra barca a vela, volo a vela, fotografia, contrabbasso, motocicletta, cucina...».
Si fermi sulla cucina e ci dia la sua ricetta più riuscita.
«Non ce l’ho e non inseguo l’eccellenza ai fornelli. Io cucino a braccio, sperimento, invento, gioco. Pensi che sono vegetariano e faccio piatti di carne che non posso assaggiare. Sono anche sommelier diplomato, ma se per caso la invitassi a cena, lascerei scegliere il vino a lei. A me basta avere la capacità critica».
L’amore come va?
«Bene. Ho una fidanzata che è un faro nella mia vita. L’ho conosciuta l’anno scorso durante una manifestazione noTav in Val di Susa. Fa la commercialista e siamo fatti l’uno per l’altra».
Un’ultima domanda, sindaco. È vero che è iscritto di nuovo all’università di Pisa in una facoltà umanistica che tiene segreta?
«Sì, e resterà segreta. Non vorrei che voi giornalisti andaste a ciacciare in queste cose e a parlare con i professori».
Riusciremo a resistere. Ma la domanda è: perché un ingegnere quarantenne che fa anche politica sente il bisogno di tornare a frequentare una facoltà umanistica?
«Per conoscere le fonti corrette. Affrontare problemi umanistici è come affacciarsi in un grande mare, senza appigli sicuri. Per il resto non ho problemi di conoscenza. Io sono quello che si definisce un grande lettore».
Allora si merita la domanda di rito. Che cosa sta leggendo in questo momento?
«Un saggio di Stefania Limiti che si intitola "Doppio livello" e svela come è stata organizzata la destabilizzazione in Italia. Ma il libro della mia vita, quello che mi ha dato l’accordo e mi ha aperto la tana del Bianconiglio è "1984" di Orwell. Su quel filone ho letto tutto il possibile».
Quindi avrà apprezzato anche il video Gaia che racconta il nostro futuro prossimo secondo Casaleggio?
«Su questo argomento passo e mi impegno a darle, dopo averci riflettuto, un’altra intervista».