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 2014  luglio 18 Venerdì calendario

BARTALI, L’INCONTENTABILE CON IL CUORE DA CAMPIONE

Cento anni fa nasceva Gino Bartali. Il posto era Ponte a Ema, ai piedi delle colline di Firenze, dove molti anni dopo si sarebbe fatto seppellire il grande poeta Eugenio Montale, convinto, come aveva scritto in un suo verso, che lì, in quei luoghi, «la terra non trema». Gino, figlio di un contadino che aveva anche l’incarico di accendere i fanali a gas, studiò fino alla quinta elementare. Poi il padre lo portò dal biciclettaro del posto, Oscar Casamonti, perché lo prendesse come garzone.
In officina non si parlava di donne e motori ma di Binda e di Guerra, i campioni dell’epoca, e, intanto, si montavano i raggi sul cerchio delle ruote. Una sera, l’apprendista Gino si confidò con il suo padrone: «Mi sento il cuore di corridore». Oscar gli disse qualcosa tipo «bravo» e si rimisero al lavoro.
Aveva il cuore ma non il fisico del corridore. A 15 anni, nel freddissimo inverno del 1929, si ammalò per tre mesi e gli si abbassò per sempre la voce, che diventò come quella di un cantante da night. Gli amici presero a chiamarlo «Careggi», che è il nome dell’ospedale di Firenze.
Ma lui aveva fede, una fede da spagnolo, una fede da Medioevo, una fede che molti anni dopo gli avrebbe fatto comprare la statua di santa Teresa di Lisieux che svettava nella sua casa di piazza Cardinale Elia Dalla Costa a Firenze, una fede che gli avrebbe fatto regalare a papa Pio XII, suo convinto sostenitore, una bici nera da donna (penso a causa del vestito papale).
Cominciò a correre, a vincere. Alla sua prima Milano-Sanremo staccò tutti i campioni di chilometri e si avviò da solo verso il traguardo. Quelli della Gazzetta dello Sport si allarmarono. Per quella che ancora non si chiamava audience, però faceva valere lo stesso le sue ragioni, non conveniva che trionfasse un illustre sconosciuto. E così un giornalista della Gazzetta fu inviato da Bartali che pedalava come un ossesso e cominciò a intervistarlo in corsa. Non cercava lo scoop il giornalista Colombo ma voleva solo distrarlo, fargli perdere la concentrazione. A Bartali parlare è sempre piaciuto un sacco e abboccò all’amo. La pedalata si fece più lenta, il gruppo lo riprese.
A quel punto nessuno lo chiamava più Careggi. Ora, per tutti, era Ginettaccio, un nome da soldato di ventura, e diventò capitano della sua squadra, la Legnano. Fu allora che arrivò, raccomandato da Biagio Cavanna, il massaggiatore cieco che sembrava uscito da un romanzo di Stevenson, il giovane (cinque anni meno di Bartali) Fausto Coppi, una promessa. Era piemontese, longilineo e silenzioso. Gino lo guardò sospettoso. Avvertì quasi subito che era un purosangue ma (si disse) i purosangue sono delicati, gli basta un bruscolo nell’occhio e cascano a terra in preda a un orrore senza nome. Lui, Gino, invece, era un carrarmato, i bruscoli non gli facevano nemmeno il solletico.
E, comunque, i patti erano chiari. Coppi era il gregario, lui il capitano. Ma al primo Giro d’Italia che corsero assieme (1940) le parti si invertirono e da quel momento Gino divenne, contro la sua volontà, socio della ditta Coppi & Bartali, una coppia di fatto che nemmeno la morte precoce di Fausto (1960) avrebbe separato. Per 40 anni esatti (fino al 5 maggio del 2000 quando si spense a 86 anni parlando di Pantani), Gino Bartali è sopravvissuto come uno rimasto vedovo.
Quando parlava di Coppi, Bartali lo chiamava «quell’altro». Fausto ricambiava dandogli di «quello là». Su questa storia di «quell’altro» e di «quello là», il grande psicoanalista Jacques Lacan avrebbe potuto scrivere uno dei suoi «Seminari», una di quelle sue lezioni magistrali sul mistero dell’identità.
A suo modo, Bartali fu un politico e un eroe nazionale. Durante la guerra fu interrogato dal torturatore fascista Carità, nella famigerata Villa Triste di Firenze, che lo accusava di traffico d’armi con il Vaticano. Lui rispose che sì, trafficava con i preti ma solo per quanto riguardava zucchero e farina. Poi si sarebbe scoperto che Bartali, in una specie di personale «Schindler’s List», aveva aiutato a salvare 800 ebrei. E nel 1948 vincendo il Tour salvò l’Italia dalla guerra civile prossima a scoppiare dopo l’attentato a Togliatti. Una leggenda con più di un pizzico di verità, tanto che De Gasperi, primo ministro, gli chiese cosa voleva in regalo. Non pagare le tasse almeno per un anno, disse Ginettaccio. No, questo non si può, rispose De Gasperi. E, ora, vi prego, non fate facili battute.
Era un tipo difficile Bartali. Una volta al Tour non volle essere fotografato abbracciato a Josephine Baker, la Venere Nera. Disse: «Non posso, sono fidanzato». Coppi l’avrebbe fatto senza problemi e, infatti, sconvolse l’Italia e rischiò la galera per il suo amore per la Dama Bianca. (Qui Lacan si sarebbe scatenato nell’analisi della coppia Fausto e Gino, che è in realtà un’analisi della coscienza divisa degli italiani).
Era un tipo quasi incontentabile Bartali. Quando gli chiesero cosa ne pensava della canzone dedicatagli da Paolo Conte, una delle più belle della storia della musica, disse: «Bella sì, però non doveva metterci quella parolaccia». Ma, grazie al suo cuore di corridore che gli faceva vincere i Tour, l’autostima nazionale («i francesi che s’incazzano») è cresciuta tanto in un momento, a guerra perduta, in cui ce n’era proprio bisogno.
Resta un’ultima curiosità. Chissà se si è avverata la profezia di Curzio Malaparte, il più scandaloso e scabroso scrittore italiano (Pasolini, a confronto, era un’educanda). Malaparte, che era un grande appassionato di ciclismo, predisse che Gino Bartali sarebbe arrivato primo in Paradiso e che Fausto Coppi, il suo grande ed eterno rivale, lo sapeva ma, in fondo, non gliene importava poi molto, perché per lui contava essere primo sulla Terra. A differenza di Bartali, Coppi non credeva tanto. Per lui l’inferno era arrivare secondo. Ma, che santa Teresa di Lisieux ci perdoni, anche per Gino l’inferno era arrivare secondo. E, dunque, che volata avranno fatto «quell’altro» e «quello là» in Paradiso.