Antonio Carioti, La Lettura - Corriere della Sera 13/7/2014, 13 luglio 2014
FRATELLI DI DESTRA SENZA ARTE NE’ PARTITO
In fondo prendere un milione di voti, al giorno d’oggi, non è uno scherzo. E in percentuale alle Europee la lista Fratelli d’Italia (FdI) ha sfiorato il 3,7%, mentre era rimasta sotto il 2 alle Politiche del 2013, quando peraltro non aveva potuto utilizzare la Fiamma, vecchio simbolo del Msi, che ora ha ereditato da Alleanza nazionale. An però non era mai scesa sotto il 10%. E anche il Msi dal 1969 in poi, sotto la guida di Giorgio Almirante, si era sempre piazzato sopra il 5. Soprattutto, mentre la destra identitaria cresce in tutta Europa e in Francia addirittura trionfa, per l’unica forza rilevante di ascendenza missina l’esclusione da Strasburgo è stato un brutto smacco. Non a caso ora il principale referente italiano di Marine Le Pen è la Lega.
D’altronde Gianfranco Fini aveva interrotto ogni contatto con il Front national, un tempo alleato del Msi. E risulta arduo, per il partito di Giorgia Meloni, candidarsi a recuperare il filo di una tradizione politica dopo averla frettolosamente dismessa, pochi anni fa, con la confluenza nel defunto Pdl. Anche il centenario della nascita di Almirante, lo scorso 27 giugno, è trascorso senza grande profitto, fra incontri celebrativi e recriminazioni vittimistiche, mentre si poteva prestare a riflessioni interessanti.
Ricordato di solito per l’oratoria magistrale, le brillanti apparizioni televisive, la dedizione al partito, Almirante in realtà era un politico di razza, non il semplice custode dell’orticello nostalgico. Già al Congresso missino del 1956, che lo vide sconfitto nel duello con il più moderato Arturo Michelini, aveva posto il problema cruciale del Msi, come essere «fascisti in democrazia». Si trattava cioè di decidere se difendere a tutti i costi un’identità legata al passato regime, confidando in un futuribile crollo dell’assetto politico postbellico, oppure sacrificarla e venire a patti con il mondo centrista, per evitare l’apertura democristiana verso sinistra.
Almirante sapeva che il richiamo al fascismo era il collante primario del Msi e gli permetteva di resistere meglio di altre forze (monarchici e liberali) all’attrazione esercitata sugli elettori di destra dalla Dc, in quanto unico baluardo dotato del peso numerico sufficiente a fronteggiare i comunisti. Per questo il leader storico della Fiamma, che pure sotto l’insegna della Destra nazionale aveva aggregato anche personalità estranee all’esperienza di Salò, fu sempre molto cauto nei rapporti con i partiti di governo. Non gli andava di fare la ruota di scorta, temeva di compromettere la bandiera del Msi per un piatto di lenticchie. Del resto già negli anni Cinquanta la strategia dell’inserimento nel sistema, perseguita dal suo rivale Michelini, era miseramente fallita.
Spesso Almirante fu accusato d’immobilismo perché teneva i voti missini inutilizzati «in frigorifero», nell’ambiente coeso ma asfittico ben descritto da Annalisa Terranova, giornalista del «Secolo d’Italia», nel libro Vittoria (Giubilei Regnani). Ma coloro che nel 1976 cercarono di entrare in gioco, con la scissione di Democrazia nazionale, non fecero molta strada. Né poteva funzionare l’ipotesi di guardare a Bettino Craxi, valorizzando la comune opzione presidenzialista. In realtà la formula almirantiana dell’«alternativa al sistema» non era pura retorica: voleva dire che c’era bisogno di un radicale cambiamento di paradigma, a livello politico e possibilmente anche istituzionale, perché i continuatori del fascismo potessero spendersi in un contesto democratico. In caso contrario tanto valeva coltivare le memorie mussoliniane, scelta che garantiva pur sempre un discreto gruzzolo di voti, evitando di contaminarsi.
Per quanto meramente difensiva, quella strategia produsse frutti copiosi dopo la morte di Almirante, perché consentì al Msi, rimasto lontano dal potere, di sfruttare appieno Tangentopoli e radunare sotto le sue bandiere vaste fette di elettorato conservatore orfano della Dc. Così la nascita di An regalò ai missini l’agognata legittimazione a governare, che tuttavia conteneva due doni avvelenati. In primo luogo, comportava una lacerante omologazione ideologica: non solo rendeva impresentabile l’antico e rassicurante armamentario nostalgico, ma troncava i fermenti movimentisti, per esempio antinucleari e antiamericani, con cui i settori neofascisti più vivaci, come riferisce Alessandro Amorese nel saggio Fronte della Gioventù (Eclettica), avevano cercato di rinnovare il loro bagaglio culturale. E poi c’era un destino subalterno: solo Silvio Berlusconi poteva battere la sinistra tenendo insieme il patriottismo di An e il secessionismo leghista, quindi al suo volere bisognava comunque inchinarsi.
Questa duplice sofferenza ha a lungo andare spappolato la destra ex missina, specie quando la crisi economica le ha precluso la scappatoia di usare i vantaggi del potere, premiando i propri gruppi sociali di riferimento, per compensare la dissoluzione di ogni cemento identitario. Alcuni si sono adattati a transitare, come se niente fosse, dal mussolinismo al berlusconismo. Fini, più ambizioso, ha inseguito invano modelli stranieri distanti anni luce dal retroterra missino, ottenendo plausi soprattutto a sinistra e oltreconfine, fino a ritrovarsi nei panni poco invidiabili del sopravvissuto a se stesso che gli abbiamo visto indossare nella sua recente sortita romana.
Infine Fratelli d’Italia è una sorta di scialuppa di salvataggio approntata alla bell’e meglio, anche se può contare sui residui di un’appartenenza collettiva forgiata in lunghi decenni d’isolamento. Solo che, come nel gioco dell’oca, oggi FdI ha di fronte un dilemma analogo a quello con cui doveva fare i conti Almirante. Flettere i muscoli, con la campagna anti immigrati, l’attacco all’euro e le reminiscenze neofasciste, a costo di rendersi poco spendibile. Oppure ammorbidire i toni, sperando di trovare posto in un’alleanza con rinnovate prospettive di governo. Viste le condizioni del centrodestra, la prima soluzione appare più plausibile, almeno nel breve periodo. Ma la concorrenza leghista e grillina, sul terreno del populismo antisistema, non è facile da controbattere, nonostante le buone performance televisive di Giorgia Meloni. Anche perché, dopo l’esperienza infelice del Pdl, il patrimonio di credibilità accumulato da Almirante nel mondo missino, ma in parte anche al di fuori, si è quasi tutto disperso nel nulla.