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 2014  luglio 16 Mercoledì calendario

CENT’ANNI E PIÙ DI INQUIETUDINE

[Intervista a Gillo Dorfles] –

Vivere ancora? «Vivere sempre». Accetta la sua età? «No, non l’accetto. Mi rifiuto di avere tutti questi anni, ma sono obbligato a tenerli». Quanti anni in meno desidererebbe? «Trenta in meno. Se solo si potesse avere meno anni di quanti in realtà se ne possiede... Non sarebbe bello?». A 104 anni, Gillo Dorfles (atteso agli incontri della rassegna Spoleto Arte) cerca ancora il kitsch, il cattivo gusto che ormai ci ha ammorbato, contaminato e che solo grazie a lui abbiamo imparato a decifrare senza tuttavia riuscire a debellare.
«È vero, aver definito il kitsch è il mio più grande merito. Nel 1968 ho introdotto in Italia un vocabolo presente negli altri paesi europei, ma che gli italiani non conoscevano. Allora si trattò di una vera e propria scoperta». Ha definitivamente trionfato il kitsch? «Oggi quasi tutto è kitsch, al punto che è sempre più difficile individuarlo e separarlo». È scomparso il bello? «È solo cambiato il gusto». Il gusto oscilla? «Sempre. Una volta c’era un gusto popolare ed elitario. Oggi c’è solo il gusto diffuso». Abita al sesto piano di un palazzone robusto, espressione di quella Milano laboriosa e del Fernet, di una borghesia solida che non ha fatto solo grande la città, ma l’Italia, con il design, l’architettura, la meccanica, l’editoria e l’industria. Sono rimaste tracce di quella borghesia? «So, per certo, che c’è stata una borghesia e una classe colta. Oggi c’è una classe ricca, meno colta». Dorfles attende ancora gli ospiti fuori dalla porta di casa come si era soliti fare in quel Paese dalle buone maniere, non ancora corrotto dagli oggetti pacchiani, dagli anglismi, dai piercing, dai tatuaggi, dalla scurrilità dilagante che da polemista, ma soprattutto da professore d’estetica e critico d’arte, ha contribuito a demolire a colpi d’ascia nei suoi elzeviri sul Corriere della sera, nei suoi testi che Castelvecchi ha pubblicato facendo un’operazione di profilassi contro il cattivo gusto, contro il cattivo suono, contro i cattivi scritti. Il professore accoglie in un salotto che ha imparato a ventilare dosando la luce del pomeriggio come le tonalità delle tempere, e in questa stanza che sembra angusta, stretta (in realtà non lo è) c’è la felice contaminazione delle discipline e professioni che lo distinguono e lo riempiono: medico, pittore, pianista, scultore, accademico, poeta.
Scrive ancora poesie? «In verità non sono un poeta. Hanno raccolto le poesie che avevo scritto 50 anni fa». Ce ne legge una? «Non riuscirei a trovare il libro anche se volessi». Insomma, in questa casa c’è la confusione dell’eclettico e si respira l’irrequietezza artistica anche su questo divano di colore rosso dove Dorfles si siede poggiando una gamba sopra l’altra, da divino mondano. E così Dorfles mette in risalto la foggia perfetta dei suoi pantaloni, che hanno la stessa tintura del Medioriente e quindi di Genova, e del gilet che indossa su un busto esile e sempre più cavo; gilet che a Trieste usava James Joyce per proteggersi dalla bora, un altro che aveva paura degli anni e della storia come ce l’ha lui. Vuole tornare indietro anche nei luoghi? «Le città del passato le porto sempre con me. Trieste e Genova sono i posti della mia infanzia, i luoghi natali e vengono prima di Milano». Non le piace Milano? «Sono affezionato perché ci vivo da sempre. In realtà, preferisco andare via. L’anno scorso sono andato in Cornovaglia, quando posso vado a Roma, dove ho frequentato l’università e ho ancora parenti».
Perché ha scelto Milano? «Era la città della mia bisnonna, infine la città dove ho insegnato». È ancora la città dell’avanguardia italiana? «Quando sono arrivato, Milano era ancora una città tranquilla, piacevole e pulita, oggi è una metropoli ed è chiaro che non possa più possedere le qualità che me l’hanno fatta apprezzare». C’è un luogo in cui ritrova quell’armonia smarrita? «Ci sono zone ben riuscite ed equilibrate come edilizia, alcune vie dietro corso Venezia, tra queste mi viene in mente via Serbelloni, dove trovo appunto quell’armonia». L’Expo? «Potrebbe essere l’ultima occasione per dotare finalmente Milano di quella city che ancora le manca». Che cosa esporta l’Italia artistica all’estero? «La sua architettura, quella di Renzo Piano oggi, in passato quella di Ignazio Gardella. Ma bisogna anche dire che in Italia degli ottimi architetti hanno spesso trascurato l’urbanistica».
Il portiere Silvano dice che Dorfles scende ogni giorno alla stessa ora: «Saranno le dodici circa, compra i giornali, prende il caffè al bar Bottarelli, e poi torna a casa. Ma il professore è riservato, saluta e più non dice». E infatti Dorfles oggi detesta la parola, la conserva, ne fa uso sempre più parsimonioso e modesto, un abate che non veste la talare ma quegli abiti sgargianti che sarebbero piaciuti a Walter Benjamin convinto che l’eternità stesse più nelle gale degli abiti che nelle idee.
È l’ultimo dei riservati? «Della mia vita privata non parlo. Sono cose personali». Non ha avuto figli. «Ecco, questa è una cosa di cui non parlo». E però Dorfles ha due nipoti, il più famoso Piero Dorfles, scrittore e protagonista di uno dei pochi programmi culturali che ha inventato in questi ultimi anni la Rai (Per un pugno di libri) che viene a trovarlo spesso, come confida sempre il portiere Silvano.
Chi sono i suoi amici più cari? «Gli amici più cari sono stati, oggi sono morti. Il pittore Bruno Munari era uno di questi. Gli amici più cari sono sempre quelli che avevi a 18 anni». Non è rimasto più nessuno? «Anche questa è una cosa di cui non parlo». Alla casa editrice Compositori, che ha curato il catalogo Kitsch oggi, dicono che Dorfles ha una compagnia discreta e affettuosa, «Il Colonetti», che sarebbe Aldo Colonetti, filosofo e storico dell’arte che si è formato con Dorfles. Con lui ragiona di bellezza, di urbanistica, di contemporaneità e viene a trovarlo ogni fine settimana.
Per quanto tempo è stato professore? «Tutta la vita fino alla pensione. Ho insegnato anche a Trieste, in Sardegna, a Cagliari, e ne conservo un caro ricordo» dice Dorfles. Era un barone? «No. Ho sempre trattato gli studenti in maniera umana». È stato contestato nel 1968? «No. Ho fatto di più. Sono andato in prigione, a San Vittore, a esaminare quegli studenti che erano stati arrestati solo perché avevano contestato. Mi sembrava giusto fare così».
Non sempre la casa, che Dorfles ha individuato come motivo delle nevrosi di Italo Svevo o di Carlo Emilio Gadda, e che rimane il lato debole degli italiani, è quella gabbia dove l’ordine soffoca la sregolatezza, il luogo del malumore e quindi del silenzio incattivito. La casa di Dorfles è un magazzino culturale saturo, un ordigno pericoloso di tomi sul tavolo, sul divano, sul pavimento. Ce ne sono perfino sul pianoforte a coda che Dorfles dice di «suonare qualche volta», perfette torri di libri incastrati come fossero lego, liberi e pericolosi Alberto Arbasino, Hermann Broch, Theodor Adorno, che felicemente si abbracciano attraverso le copertine in un matrimonio letterario omosessuale. E in due angoli della stanza ci sono due opere di Dorfles, due installazioni, totem in vetroresina («Sono mie opere, le faccio fare in laboratorio a Viareggio»), due Argo che insieme a lui forse custodiscono le tele di Toti Scialoja, di Giosetta Fioroni, Giuseppe Capogrossi, Lucio Del Pezzo e quel fantastico taglio di Lucio Fontana, il più nascosto forse perché il più prezioso quindi da esibire meno.
L’arte è finita? «L’arte non finisce, ma le opere stupide adesso sono troppe» dice Dorfles con la sua voce baritonale e severa, voce da rimprovero, che castiga. L’opera più stupida che ha mai visto? «Sono molte, purtroppo anche nei musei, oggi non saprei neppure ricordarle. Per decidere il valore di un’opera serve almeno un secolo. Il compito dell’arte è quello di essere sempre diversa dal passato, di aggiornarsi».
Ci sono ancora provocatori di talento? «Ci sono stati. Gli ultimi sono Paul Klee e Vasilij Kandinskij». Lo squalo, il teschio di Damien Hirst, il sangue di Marina Abramovic ́, i morsi sulla pelle di Vito Acconci? «È arte di second’ordine». I critici italiani di primo ordine? «Parlare di chi è andato via è sempre di cattivo gusto». Zeri? «Era uno storico d’arte più che un critico». Longhi? «Anche lui era uno storico». Argan? «Era un amico. Ma una volta è venuto a vedere una mia mostra: leggeva piuttosto che guardare i miei quadri». Chi è oggi il conformista? «Metà degli intellettuali è conformista e manca di coraggio». Fabio Fazio è conformista? «Mi ha invitato in trasmissione. Ha fatto bene. Quindi dico che è bravo». Quali giornali apprezza? «Corriere, Repubblica e Sole. Non è vero che i nostri giornali siano brutti».
Dorfles scrive su una Olivetti ma non la famosa «Valentine» rossa di Ettore Sottsass; la sua è spartana: «Scrivere è una necessità, lo faccio da quando avevo vent’anni, da quando ho esordito su La Fiera Letteraria». Sono ancora mordaci gli elzeviri di Dorfles? «Oggi sono più accondiscendente, mi irrito di meno». L’ha irritata l’inchino del fercolo della Madonna, a Oppido Mamertina, in Calabria, di fronte alla casa del boss? «No». La processione religiosa è un feticcio? «Nelle processioni religiose non ci vedo nulla di male. È giusto che il popolo abbia le sue processioni. C’è il calcio, c’è lo sport, quello che io chiamo l’amore di popolo. È giusto che ci sia anche una forma d’amore trascendentale». Dunque cosa la irrita ancora? «La musica di fondo, tutto ciò che non ha importanza, le trasmissioni banali». Il turpiloquio di Beppe Grillo la irrita? «Sono bestemmie. Ci sono bestemmie che si devono pronunciare, ma non si possono utilizzare le bestemmie in situazioni che non le richiedono».
La politica le richiede? «Della politica penso sempre male». Rottamazione è un concetto pericoloso? «Ha delle positività: significa togliere le cose inutili. Molte volte si elimina il meglio e il peggio rimane».
Lilla Pezzano, che è direttrice della libreria Skira al museo della Triennale di Milano, un altro luogo dove Dorfles ritrova l’armonia e il suo passato, dice che ha un piccolo altarino laico e di carta del professore: «Sono i suoi saggi, i suoi cataloghi, perché ogni volta che viene pretende di vedere i suoi libri». La direttrice si rammarica di non possedere più la copia, quell’anticorpo contro il kitsch che è L’antologia del cattivo gusto del 1968, edito da Mazzotta: «Ormai sono rimasti pochi esemplari» precisa. Ne ha lei una copia, professore? «Forse in casa ne ho una, ma sarebbe troppo difficile cercarla».
Neppure l’Ambrogino d’oro, che le ha conferito il Comune di Milano, ricorda dove sia? «Quello non c’è. Non sono andato mai a ritirarlo. Detesto premi, targhe, coppe: tutta roba inutile. Meglio del denaro, ma meglio ancora 50 bottiglie di vino». E chissà se un giorno in casa di Dorfles si ritroveranno le poesie, i libri che magnificamente smarrisce, in una bottiglia di Valpolicella, di Amarone oppure di Cannonau. Nascosti e protetti da quel ladro disonesto e crudele che tanto spaventa il professore e che prova a scacciare chiudendo la porta a doppia mandata: «Vi prego, non parlatemi più del tempo».