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 2014  luglio 11 Venerdì calendario

CISGIORDANIA, I FIGLI DELL’OCCUPAZIONE

La strada ster­rata è un insieme di curve non segnate attra­verso un pae­sag­gio pri­mor­diale di roc­cia e sab­bia sotto un vasto cielo di cobalto. La nostra Jeep rim­balza tra massi e cespu­gli di gine­stre coperti di pol­vere prima di ini­ziare una discesa a rotta di collo dall’alto cri­nale di roc­cia verso una pro­fonda val­lata. Si vede all’orizzonte un accam­pa­mento dell’esercito israe­liano, poi il pic­colo vil­lag­gio di Jinba: due edi­fici, qual­che tenda, qual­che recinto di ani­mali. Un paio di eli­cot­teri mili­tari sfer­ra­gliano sulle nostre teste. Nell’aria c’è odore di pecore. Alla fine di que­sto sen­tiero nel sud della Cisgior­da­nia, Nawal Jaba­rin di 12 anni, vive in una grotta.
È nata al buio sotto un basso tetto fra­sta­gliato, così come i suoi fra­telli e suo padre prima di lei. Lungo il per­corso cosparso di roc­cia che col­lega Jinba alla strada asfal­tata più vicina, la madre di Nawal ha dato alla luce un altro bam­bino, senza riu­scire a rag­giun­gere l’ospedale in tempo; sullo stesso tratto di terra appiat­tita, il padre di Nawal è stato pic­chiato da coloni israe­liani davanti alla bam­bina terrorizzata.

La grotta e una tenda adia­cente sono la casa di 18 per­sone: il padre di Nawal, le sue due mogli, e 15 bam­bini. Le 200 pecore della fami­glia sono chiuse fuori in un recinto. Un vec­chio gene­ra­tore che fun­ziona gra­zie a del costoso gaso­lio for­ni­sce ener­gia per un mas­simo di tre ore al giorno. L’acqua viene pre­le­vata dai pozzi del vil­lag­gio, o con­se­gnata dai trat­tori ad un costo fino a 20 volte supe­riore a quello dell’acqua cor­rente. Durante l’inverno aspri venti spaz­zano il pae­sag­gio deser­tico, sfer­zando le tende e costrin­gendo tutta la fami­glia ad affol­larsi nella grotta per cer­care calore. «In inverno, ci ammas­siamo uno sopra l’altro» mi dice Nawal. Lei rara­mente lascia il vil­lag­gio. «Prima andavo in auto con mio padre. Ma i coloni ci hanno fer­mato. Hanno pic­chiato mio padre davanti ai miei occhi, impre­cando ed usando un lin­guag­gio vol­gare. Hanno preso le nostre cose e le hanno get­tate fuori dall’auto».

Per­sino la casa non è sicura. «I sol­dati ven­gono per cer­care. Non so cosa» dice. «Alcune volte aprono i recinti e fanno uscire le pecore. Durante il Rama­dan sono venuti e hanno preso i miei fra­telli. Ho visto i sol­dati che li pic­chia­vano con il cal­cio del fucile. Ci hanno costretti a lasciare la grotta». Nono­stante le dif­fi­coltà della sua vita, Nawal è felice. Que­sta è la mia patria, qui è dove voglio essere. È dura qui, ma mi piace la mia casa e la terra e le pecore. Ma, aggiunge, io sarò ancora più felice se ci sarà per­messo di rimanere».
La seconda generazione

Nawal fa parte della seconda gene­ra­zione di pale­sti­nesi nata sotto l’occupazione. La sua nascita è arri­vata 34 anni dopo la con­qui­sta da parte di Israele della Cisgior­da­nia, della stri­scia di Gaza e di Geru­sa­lemme Est durante la guerra dei sei giorni. Sulla popo­la­zione pale­sti­nese fu impo­sta la legge mili­tare e subito dopo Israele comin­ciò a costruire colo­nie sotto la pro­te­zione mili­tare sulla terra occu­pata. Geru­sa­lemme Est fu annessa con un tra­sfe­ri­mento dichia­rato ille­gale dalle leggi inter­na­zio­nali. La prima gene­ra­zione – i geni­tori di Nawal e i loro coe­ta­nei – si avvi­ci­nano ora alla mezza età, la loro intera vita domi­nata dalla rou­tine quo­ti­diana e dalle pic­cole umi­lia­zioni di un popolo occu­pato. Circa quat­tro milioni di pale­sti­nesi non hanno cono­sciuto altro se non un’esistenza defi­nita da posti di con­trollo, richie­ste di docu­menti di iden­tità, raid not­turni, arre­sti, spo­sta­menti, abusi ver­bali, inti­mi­da­zioni, attac­chi fisici, pri­gione e morte vio­lenta. È un mosaico cru­dele: innu­me­re­voli fram­menti appa­ren­te­mente non cor­re­lati che, se messi insieme, costrui­scono un qua­dro di potenza e di impo­tenza. Eppure, dopo 46 anni, è diven­tato anche una sorta di normalità.

Per i gio­vani, l’impatto di tale ambiente è spesso pro­fondo. I bam­bini sono espo­sti ad espe­rienze che for­mano i com­por­ta­menti di una vita intera e, in alcuni casi, hanno con­se­guenze psi­co­lo­gi­che per­ma­nenti. Frank Roni, uno spe­cia­li­sta della pro­te­zione dei bam­bini per l’Unicef, l’agenzia delle Nazioni Unite per i bam­bini, che lavora nella Cisgior­da­nia, a Gaza e a Geru­sa­lemme Est, parla del «trauma inter­ge­ne­ra­zio­nale» di vivere sotto l’occupazione. «Il con­flitto in corso, il dete­rio­ra­mento dell’ambiente sociale ed eco­no­mico, l’aumento della vio­lenza – tutto ciò ha un impatto pesante sui bam­bini» dice. «Muri psi­co­lo­gici» rispec­chiano bar­riere fisi­che e posti di con­trollo. «I bam­bini for­mano una men­ta­lità da ghetto e per­dono spe­ranza nel futuro, e ciò ali­menta un ciclo di dispe­ra­zione», dice Roni.

Ma le loro espe­rienze sono ine­vi­ta­bil­mente ine­guali. Molti bam­bini che vivono nelle città pale­sti­nesi più grandi, in un regime di auto-governo, rara­mente entrano in con­tatto con coloni o sol­dati, men­tre tali incon­tri sono parte della vita quo­ti­diana per coloro che vivono nel 62% della Cisgior­da­nia sotto il com­pleto con­trollo di Israele, nota come Zona C. I bam­bini di Gaza vivono in una stri­scia di terra bloc­cata, spesso cre­scono in con­di­zioni di estrema dif­fi­coltà eco­no­mica, e con l’esperienza diretta e scon­vol­gente di un’intensa guerra. A Geru­sa­lemme Est, un’alta per­cen­tuale di bam­bini pale­sti­nesi cre­sce in ghetti impo­ve­riti, invasi dall’espansione degli inse­dia­menti israe­liani o con coloni estre­mi­sti che acqui­si­scono pro­prietà in mezzo ad essi.

Nelle Valli a sud di Hebron, i pastori che hanno vagato nell’area per gene­ra­zioni vivono ideo­lo­gi­ca­mente e reli­gio­sa­mente gui­dati da ebrei che recla­mano un’antica con­nes­sione biblica alla terra e vedono i pale­sti­nesi come intrusi. Hanno costruito inse­dia­menti recin­tati sulle cime delle col­line, ser­viti da strade asfal­tate, elet­tri­cità e acqua cor­rente, e pro­tetti dall’esercito. I coloni e i sol­dati hanno por­tato la paura agli abi­tanti delle grotte: vio­lenti attac­chi alla popo­la­zione pale­sti­nese locale sono fre­quenti, insieme a raid mili­tari e alla costante minac­cia di rimo­zione for­zata dalla pro­pria terra.
Zona di fuoco 918

Il vil­lag­gio di Nawal si trova all’interno di un’area deno­mi­nata dall’esercito di Israele negli anni 80 «Zona di Fuoco 918» per l’addestramento mili­tare. L’esercito vuole far slog­giare otto comu­nità pale­sti­nesi addu­cendo che è poco sicuro per loro rima­nere all’interno di una zona di adde­stra­mento mili­tare; non sono «resi­denti per­ma­nenti». Una bat­ta­glia legale sul destino del vil­lag­gio, lan­ciata prima che Nawal nascesse, ancora irri­solta.
La sua scuola, una strut­tura scarna con tre stanze, è sotto ordine di demo­li­zione, così come l’unico altro edi­fi­cio nel vil­lag­gio, la moschea, che viene uti­liz­zata come aula in caso di sovraf­fol­la­mento. Entrambe sono state costruite senza il per­messo uffi­ciale di Israele, che non viene con­cesso quasi mai. Hay­tham Abu Sabha, l’insegnante di Nawal, dice che le vite dei suoi alunni sono molto dure. «I bam­bini non hanno momenti di svago. Non hanno le cose fon­da­men­tali della vita: non c’è elet­tri­cità, hanno un ele­vato livello di mal­nu­tri­zione e non hanno luo­ghi per gio­care. Quando sono malati o si fanno male, è dif­fi­cile por­tarli in ospe­dale. Siamo costretti a vivere in modo primitivo».

I bam­bini sono anche costretti ad essere corag­giosi. Nawal insi­ste che non ha paura dei sol­dati. Ma quando le chiedo se ha pianto durante i raid sulla sua casa, esita prima di annuire quasi imper­cet­ti­bil­mente, per­ché non vuole ammet­tere le sue paure. Gli psi­co­logi e i con­su­lenti che lavo­rano con i bam­bini dicono che que­sta rilut­tanza ad ammet­tere e a par­lare delle espe­rienze spa­ven­tose com­pensa il danno cau­sato dall’evento stesso. «I bam­bini dicono che non hanno paura dei sol­dati, ma il loro lin­guag­gio del corpo dice cose diverse», dice Mona Zagh­rout, diret­tore della con­su­lenza presso la Ymca a Beit Sahour, vicino Betlemme. «Si ver­go­gnano a dire che hanno paura». Ahed Tamimi, 12 anni, gioca a cam­pana, ama i film sulle sirene e prende in giro i suoi fra­telli a casa a Nabi Saleh. Come Nawal, la dodi­cenne Ahed Tamimi asse­ri­sce corag­gio­sa­mente che nean­che lei ha paura dei sol­dati, prima di ammet­tere con calma che a volte ha timore. L’apparente man­canza di paura di Ahed l’ha cata­pul­tata in un breve momento di noto­rietà l’anno scorso in un video posto on line, in cui lei affronta arrab­biata i sol­dati israe­liani. La ragazza è stata invi­tata in Tur­chia, dove è stata salu­tata come un’eroina.
Nabi Saleh

In mezzo a col­line albe­rate a circa tre ore di mac­china a nord di Jinba, Nabi Saleh è un vil­lag­gio di circa 500 per­sone, la mag­gior parte delle quali con­di­vi­dono il cognome Tamimi. Dalla casa di Ahed, l’insediamento israe­liano di Hala­mish è visi­bile attra­verso una valle. Fon­dato nel 1977, è costruito in parte su terra con­fi­scata alle locali fami­glie pale­sti­nesi. Una base mili­tare israe­liana è posi­zio­nata accanto all’insediamento.
Quando i coloni si sono appro­priati della sor­gente del vil­lag­gio cin­que anni fa, gli abi­tanti di Nabi Saleh hanno comin­ciato delle pro­te­ste set­ti­ma­nali. I geni­tori di Ahed, Bas­sem e Nari­man, erano in testa nelle dimo­stra­zioni, che sono per la mag­gior parte non vio­lente, anche se spesso inclu­dono dei lanci di sassi. I mili­tari israe­liani pun­tual­mente rispon­dono con gas lacri­mo­geni, gra­nate per stor­dire , pro­iet­tili di gomma, getti di fluido maleo­do­rante cono­sciuto come «skunk» e a volte muni­zioni elettriche.

Due abi­tanti del vil­lag­gio sono stati uccisi, e circa 350, inclusi molti bam­bini, feriti. Ahed è stato col­pito al polso da un pro­iet­tile di gomma. Almeno 140 per­sone di Nabi Saleh sono state arre­state o messe in pri­gione in con­se­guenza dell’attività di pro­te­sta, inclusi 40 mino­renni. Bas­sem è stato incar­ce­rato nove volte – quat­tro volte dalla nascita di sua sorella – ed è stato nomi­nato da Amne­sty Inter­na­tio­nal un «pri­gio­niero di coscienza»; Nari­man è stato fer­mato cin­que volte da quando è comin­ciata la pro­te­sta; e il fra­tello mag­giore di Ahed, Waed, è stato arre­stato. Suo zio, Rush­die Tamimi, è morto due giorni dopo essere stato spa­rato dai sol­dati a Novem­bre 2012. Un’indagine delle forze di difesa israe­liane ha poi sco­perto che i sol­dati ave­vano spa­rato 80 pro­iet­tili senza motivo; e ave­vano anche impe­dito agli abi­tanti del vil­lag­gio di dare aiuto medico all’uomo ferito.

Ahed, una ragazza esile con la fac­cia da elfo, è un mix scon­for­tante di mon­da­nità e inge­nuità. Per una bam­bina, sa fin troppo di gas lacri­mo­geni e pro­iet­tili di gomma, ordini di demo­li­zione e raid mili­tari. La sua casa, sfre­giata da ripe­tuti attac­chi mili­tari, è una delle 13 del vil­lag­gio che rischiano di essere rase al suolo. Quando le chiedo quante volte ha spe­ri­men­tato gli effetti del gas lacri­mo­geno ride, dicendo che non si pos­sono con­tare. Le chiedo di descri­verli. «Non rie­sco a respi­rare, gli occhi mi fanno male, mi sem­bra di sof­fo­care. A volte pas­sano 10 minuti prima che possa di nuovo vedere qual­cosa» dice.

Come Nawal, Ahed è abi­tuata ai raid mili­tari sulla sua casa. Uno, men­tre suo padre era in pri­gione, ini­ziò alle 3 del mat­tino con il suono dei fucili da assalto che pic­chia­vano sulla porta di ingresso. «Mi sono sve­gliata e c’erano sol­dati nella mia stanza. Mia madre urlava con­tro i sol­dati. Met­te­vano tutto sotto sopra, cer­cando. Pre­sero il nostro com­pu­ter, le mac­chine foto­gra­fi­che e i tele­foni». Secondo Bas­sem, sua figlia «a volte si sve­glia di notte, gri­dando impau­rita. La mag­gior parte delle volte i bam­bini sono ner­vosi e stres­sati, e que­sto influenza la loro edu­ca­zione. Le loro prio­rità cam­biano e non vedono l’utilità di stu­diare e impa­rare». Coloro che lavo­rano con i bam­bini pale­sti­nesi dicono che è una rea­zione comune. «Quando vivi sotto costante minac­cia o paura di peri­colo, i tuoi mec­ca­ni­smi di difesa si dete­rio­rano. I bam­bini sono quasi sem­pre sotto stress, hanno paura di andare a scuola, non rie­scono a concentrarsi». (…)
La vici­nanza, a Hebron

In nes­suna altra parte della Cisgior­da­nia i coloni israe­liani e i pale­sti­nesi vivono in così stretta vici­nanza e con mag­giore ani­mo­sità come ad Hebron. Poche cen­ti­naia di ebrei ispi­rati dalla Bib­bia risie­dono nel cuore della città antica, pro­tetti da circa 4000 sol­dati in mezzo ad una popo­la­zione pale­sti­nese di 170.000 abi­tanti. Nel 1997 la città è stata sud­di­visa in H1, ammi­ni­strata dall’autorità pale­sti­nese, ed H2, un’area molto più pic­cola attorno al vec­chio mer­cato, sotto il con­trollo dei mili­tari israe­liani. H2 ora è quasi una città fan­ta­sma: negozi con le per­siane chiuse, case vuote, strade deserte, gruppi di cani ran­dagi, e sol­dati armati pra­ti­ca­mente ad ogni angolo. Qui le fami­glie pale­sti­nesi rima­ste sop­por­tano un’esistenza dif­fi­cile con i loro vicini coloni. A Tel Rumeida, il quar­tiere di Waleed, pra­ti­ca­mente tutti i resi­denti pale­sti­nesi sono par­titi. Solo gli Abu Aishes e un’altra fami­glia riman­gono sulla loro strada, accanto a nuovi con­do­mini di coloni ed edi­fici mobile. Waleed vive molto più vicino ai suoi vicini sol­dati e coloni di Ahed Tamimi o di Nawal Jaba­rin: dalla sua fine­stra si può vedere diret­ta­mente nelle case dei coloni, a pochi metri di distanza. La porta accanto alla sua casa è una base dell’esercito che ospita circa 400 soldati.

A seguito di attac­chi vio­lenti, lanci di pie­tre, fine­stre fra­cas­sate e ripe­tute mole­stie dai coloni, gli Abu Aishes hanno eretto una gab­bia con rete di acciaio e messo delle video­ca­mere sulla parete della casa a tre piani in cui la fami­glia ha vis­suto per 55 anni. Quando non è a scuola, Waleed tra­scorre quasi tutto il tempo den­tro que­sta gab­bia. «Per me que­sto è nor­male» dice. «Mi ci sono abi­tuato. Ma è come vivere in pri­gione. Nes­suno può venire a farci visita. I sol­dati fer­mano le per­sone in fondo alla strada, e se non sono della nostra fami­glia, hanno il divieto di farci visita. C’è solo una strada di accesso alla nostra casa, e i sol­dati sono lì giorno e notte. Non ricordo nient’altro: sono lì da quando sono nato». Nono­stante la sua «nor­ma­lità», desi­de­re­rebbe che i suoi amici venis­sero a casa sua, o che lui e suo fra­tello potes­sero gio­care a cal­cio per strada.

La gab­bia, e la con­danna pub­blica scop­piata in Israele a seguito della tra­smis­sione in tele­vi­sione di una donna ebrea che sibi­lava «put­tana» in arabo attra­verso la rete alle donne della fami­glia Abu Aishe, hanno ridotto gli attac­chi e gli abusi dei coloni. Ma ancora Waleed a volte viene chia­mato «asino» o «cane» e a volte viene preso in giro dai figli dei coloni.

Sua madre, Ibta­san, dice che i sol­dati non fanno niente per pro­teg­gere i suoi figli. «Si sono abi­tuati a que­sto tipo di vita, ma è este­nuante. Sono sem­pre pre­oc­cu­pata» dice men­tre imma­gini della strada sot­to­stante sfar­fal­lano su un moni­tor tele­vi­sivo all’angolo del sog­giorno. «Era più facile quando erano pic­coli, anche se face­vano brutti sogni. Dor­mi­vano uno accanto a me, uno accanto a mio marito, e uno in mezzo a noi».
Aggres­sioni fisi­che e arresti

Una rela­zione del 2010 dell’organizzazione per la difesa dei diritti dei bam­bini Defence for Chil­dren Inter­na­tio­nal (Dci) diceva che i bam­bini pale­sti­nesi di Hebron erano «fre­quen­te­mente ber­sa­glio di attac­chi dei coloni sotto forma di aggres­sioni fisi­che e lanci di sassi che li feri­vano» ed erano «par­ti­co­lar­mente vul­ne­ra­bili agli attac­chi dei coloni». (…) «Le per­sone mi rispet­tano per­ché sono stato arre­stato tante volte» dice Muslim Odeh, 14 anni, che vive a Sil­wan, Geru­sa­lemme Est. Un altro padre, il cui figlio ado­le­scente è stato trat­te­nuto dalla poli­zia israe­liana 16 volte da quando aveva nove anni, con­corda. «Abbiamo il diritto di difen­derci, ma con cosa dob­biamo difen­derci? Abbiamo carri armati o cac­cia da com­bat­ti­mento?» chiede Mousa Odeh. Suo figlio, Muslim, ora 14 anni, è ben noto alle forze di sicu­rezza israe­liane nel quar­tiere di Sil­wan a Geru­sa­lemme est. A pochi minuti d’auto dagli alber­ghi a cin­que stelle intorno alle anti­che mura della Città Vec­chia di Geru­sa­lemme, Sil­wan si incu­nea in un cana­lone, un fitto gro­vi­glio di case lungo le strade ripide e strette alli­neate con le offi­cine di ripa­ra­zione auto e gli stan­chi negozi di alimentari.

È sem­pre stato un quar­tiere dif­fi­cile, ma un afflusso di coloni dalla linea dura ha creato acute ten­sioni, esa­spe­rate dall’aggressione delle loro guar­die di sicu­rezza armate, e dagli ordini di demo­li­zione emessi con­tro più di 80 case pale­sti­nesi. I gio­vani della zona lan­ciano pie­tre e sassi con­tro i vei­coli rin­for­zati dei coloni, rischiando l’arresto da parte dell’onnipresente poli­zia. «Ogni minuto vedi la poli­zia – su e giù, su e giù» dice Muslim. «Ci fer­mano, ci per­qui­si­scono, ci spiano. Anche io li spio, quando mi annoio li spio. Per­ché dovrei aver paura di loro?» Il ragazzo insi­ste nel dire di non essere fra quelli che lan­ciano sassi, un’affermazione che ostenta inge­nuità. «La poli­zia mi accusa di creare pro­blemi, ma non lan­cio pie­tre, mai. Forse alcuni dei miei amici». Hyam, la madre di Muslim, dice che suo figlio, il più pic­colo di cin­que figli, è cam­biato da quando sono comin­ciati gli arre­sti. «Lo hanno distrutto psi­co­lo­gi­ca­mente. È più aggres­sivo e ner­voso, ipe­rat­tivo, vuole sem­pre essere fuori per strada».

Gli arre­sti di Muslim hanno seguito un modello tipico e ben docu­men­tato. Fra 500 e 700 bam­bini pale­sti­nesi ven­gono arre­stati dalle forze di sicu­rezza israe­liane ogni anno, la mag­gior parte accu­sati di lan­ciare pie­tre. Spesso ven­gono arre­stati di notte, por­tati via da casa senza un geni­tore o un adulto che li accom­pa­gni, inter­ro­gati senza avvo­cato, trat­te­nuti in cella senza prima appa­rire di fronte giu­dice. Alcuni sono ben­dati o hanno le mani legate con fascette di plastica.

Molti rife­ri­scono di abusi fisici e ver­bali, e affer­mano di ren­dere false con­fes­sioni. Secondo Dci, che ha rac­colto cen­ti­naia di dichia­ra­zioni giu­rate di minori in Cisgior­da­nia e Geru­sa­lemme est, que­sti bam­bini ven­gono spesso spinti a dare infor­ma­zioni su parenti o vicini attra­verso i loro inter­ro­ga­tori. Muslim è stato trat­te­nuto per periodi che vanno da poche ore a una set­ti­mana. Per Muslim, i suoi ripe­tuti fermi sono un rito di pas­sag­gio. «Le per­sone mi rispet­tano per­ché sono stato arre­stato tante volte» mi dice. Gli psi­co­logi infan­tili la vedono diver­sa­mente. Dicono che i ragazzi sono spesso festeg­giati come eroi quando tor­nano dalla deten­zione, il che nega loro la pos­si­bi­lità di ela­bo­rare le pro­prie espe­rienze trau­ma­ti­che ed espri­mere sen­ti­menti comuni di ansia acuta. Secondo Zagh­rout, ci si spetta che i ragazzi si com­por­tino dura­mente «Nella nostra cul­tura, è più facile per le ragazze mostrare paura e pian­gere. Ai ragazzi viene detto che non devono piangere.

È dif­fi­cile per i ragazzi dire che hanno paura di andare in bagno da soli o che vogliono dor­mire con i loro geni­tori. Ma comun­que avver­tono que­sti sen­ti­menti, sem­pli­ce­mente emer­gono diver­sa­mente – negli incubi, bagnando il letto, con l’aggressività». Mousa, il padre di Muslim e l’imam della moschea locale, dice che, a dispetto delle bra­vate, suo figlio è un ragazzo infe­lice e insi­curo. «Quando arriva l’esercito si incolla a me. Da quando sono comin­ciati gli arre­sti, dorme con me. Men­tre Mousa parla Muslim improv­vi­sa­mente esce di casa por­tando un col­tello, inten­zio­nato a forare un pal­lone da cal­cio che viene cal­ciato con­tro il muro di fronte da bam­bini locali». «Que­sto è un com­por­ta­mento distur­bato, irra­zio­nale» dice Mousa. «È a causa degli arre­sti. Hanno distrutto la sua infan­zia. Ha visto suo padre, suo fra­tello, sua sorella che veni­vano arre­stati. C’è un ordine di demo­li­zione che pende sulla casa. La mag­gior parte dei nostri vicini sono stati arre­stati. Que­sta è l’infanzia di que­sto ragazzo. Non cre­sce a Disney­land» (…)
Il momento in cui i bam­bini rea­liz­zano che i loro geni­tori, spe­cial­mente il loro padre, non pos­sono pro­teg­gerli, è psi­co­lo­gi­ca­mente signi­fi­ca­tivo, secondo gli esperti. (…)
La fidu­cia nei genitori

Secondo Roni dell’Unicef, «I bam­bini pos­sono per­dere fidu­cia e rispetto quando vedono il loro padre pic­chiato davanti a loro. Que­sti bam­bini a volte svi­lup­pano una resi­stenza a rispet­tare le per­sone che rive­stono un’autorità. Sen­tiamo geni­tori che dicono, ‘Non rie­sco più con­trol­lare mio figlio – non mi ascolta.’ Que­sto crea un grande stress all’interno di una fami­glia». Muslim ora salta rego­lar­mente la scuola, dicendo che lo annoia, e tra­scorre le sue gior­nate invece vagando per le strade. Secondo Mousa, gli inse­gnanti del ragazzo dicono che è dif­fi­cile da con­trol­lare, aggres­sivo e non col­la­bo­ra­tivo. Alla fine della nostra visita, l’adolescente inquieto ci accom­pa­gna alla nostra auto. Sal­tella lungo la strada, spor­gen­dosi nei fine­strini aperti delle auto per ruo­tare un volante o suo­nare un clac­son e avverte: «Attenti, alcuni bam­bini potreb­bero lan­ciarvi delle pietre».

Nono­stante le loro vite dif­fi­cili, cia­scuno di que­sti quat­tro bam­bini ha una pie­tra di para­gone di nor­ma­lità nella pro­pria vita. Per Nawal sono le pecore di cui si occupa. Ad Ahed piace il foot­ball e gio­care con le bam­bole. Waleed è appas­sio­nato di dise­gno. Muslim si occupa dei cavalli nel suo quar­tiere. E cia­scuno di loro ha un’ambizione per il futuro: Nawal spera di essere un medico, di occu­parsi degli abi­tanti delle grotte e dei pastori delle Col­line a sud di Hebron; Ahed vuole diven­tare avvo­cato, per com­bat­tere per i diritti della Pale­stina; Waleed aspira ad essere un archi­tetto, per pro­get­tare case senza gab­bie; e a Muslim piace aggiu­stare le cose e vor­rebbe diven­tare un mec­ca­nico. Ma cre­scere sotto l’occupazione sta model­lando un’altra gene­ra­zione di pale­sti­nesi. I pro­fes­sio­ni­sti che lavo­rano con que­sti bam­bini dicono che molti gio­vani trau­ma­tiz­zati diven­gono adulti arrab­biati e senza spe­ranza, con­tri­buendo a un ciclo di dispe­ra­zione e vio­lenza. Ciò che affron­tiamo nella nostra infan­zia, e il modo in cui lo gestiamo, ci forma come adulti,” dice Zaghrout.

«C’è un ciclo di traumi impressi nella coscienza pale­sti­nese, tra­smesso di gene­ra­zione in gene­ra­zione» dice Rita Gia­ca­man, docente di salute pub­blica all’università di Bir­zeit. «Anche la dispe­ra­zione viene tra­man­data. È dif­fi­cile per i bam­bini vedere un futuro. Il pas­sato non solo informa il pre­sente, ma anche il futuro».