Harriet Sherwood, The Guardian - il manifesto 11/7/2014, 11 luglio 2014
CISGIORDANIA, I FIGLI DELL’OCCUPAZIONE
La strada sterrata è un insieme di curve non segnate attraverso un paesaggio primordiale di roccia e sabbia sotto un vasto cielo di cobalto. La nostra Jeep rimbalza tra massi e cespugli di ginestre coperti di polvere prima di iniziare una discesa a rotta di collo dall’alto crinale di roccia verso una profonda vallata. Si vede all’orizzonte un accampamento dell’esercito israeliano, poi il piccolo villaggio di Jinba: due edifici, qualche tenda, qualche recinto di animali. Un paio di elicotteri militari sferragliano sulle nostre teste. Nell’aria c’è odore di pecore. Alla fine di questo sentiero nel sud della Cisgiordania, Nawal Jabarin di 12 anni, vive in una grotta.
È nata al buio sotto un basso tetto frastagliato, così come i suoi fratelli e suo padre prima di lei. Lungo il percorso cosparso di roccia che collega Jinba alla strada asfaltata più vicina, la madre di Nawal ha dato alla luce un altro bambino, senza riuscire a raggiungere l’ospedale in tempo; sullo stesso tratto di terra appiattita, il padre di Nawal è stato picchiato da coloni israeliani davanti alla bambina terrorizzata.
La grotta e una tenda adiacente sono la casa di 18 persone: il padre di Nawal, le sue due mogli, e 15 bambini. Le 200 pecore della famiglia sono chiuse fuori in un recinto. Un vecchio generatore che funziona grazie a del costoso gasolio fornisce energia per un massimo di tre ore al giorno. L’acqua viene prelevata dai pozzi del villaggio, o consegnata dai trattori ad un costo fino a 20 volte superiore a quello dell’acqua corrente. Durante l’inverno aspri venti spazzano il paesaggio desertico, sferzando le tende e costringendo tutta la famiglia ad affollarsi nella grotta per cercare calore. «In inverno, ci ammassiamo uno sopra l’altro» mi dice Nawal. Lei raramente lascia il villaggio. «Prima andavo in auto con mio padre. Ma i coloni ci hanno fermato. Hanno picchiato mio padre davanti ai miei occhi, imprecando ed usando un linguaggio volgare. Hanno preso le nostre cose e le hanno gettate fuori dall’auto».
Persino la casa non è sicura. «I soldati vengono per cercare. Non so cosa» dice. «Alcune volte aprono i recinti e fanno uscire le pecore. Durante il Ramadan sono venuti e hanno preso i miei fratelli. Ho visto i soldati che li picchiavano con il calcio del fucile. Ci hanno costretti a lasciare la grotta». Nonostante le difficoltà della sua vita, Nawal è felice. Questa è la mia patria, qui è dove voglio essere. È dura qui, ma mi piace la mia casa e la terra e le pecore. Ma, aggiunge, io sarò ancora più felice se ci sarà permesso di rimanere».
La seconda generazione
Nawal fa parte della seconda generazione di palestinesi nata sotto l’occupazione. La sua nascita è arrivata 34 anni dopo la conquista da parte di Israele della Cisgiordania, della striscia di Gaza e di Gerusalemme Est durante la guerra dei sei giorni. Sulla popolazione palestinese fu imposta la legge militare e subito dopo Israele cominciò a costruire colonie sotto la protezione militare sulla terra occupata. Gerusalemme Est fu annessa con un trasferimento dichiarato illegale dalle leggi internazionali. La prima generazione – i genitori di Nawal e i loro coetanei – si avvicinano ora alla mezza età, la loro intera vita dominata dalla routine quotidiana e dalle piccole umiliazioni di un popolo occupato. Circa quattro milioni di palestinesi non hanno conosciuto altro se non un’esistenza definita da posti di controllo, richieste di documenti di identità, raid notturni, arresti, spostamenti, abusi verbali, intimidazioni, attacchi fisici, prigione e morte violenta. È un mosaico crudele: innumerevoli frammenti apparentemente non correlati che, se messi insieme, costruiscono un quadro di potenza e di impotenza. Eppure, dopo 46 anni, è diventato anche una sorta di normalità.
Per i giovani, l’impatto di tale ambiente è spesso profondo. I bambini sono esposti ad esperienze che formano i comportamenti di una vita intera e, in alcuni casi, hanno conseguenze psicologiche permanenti. Frank Roni, uno specialista della protezione dei bambini per l’Unicef, l’agenzia delle Nazioni Unite per i bambini, che lavora nella Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme Est, parla del «trauma intergenerazionale» di vivere sotto l’occupazione. «Il conflitto in corso, il deterioramento dell’ambiente sociale ed economico, l’aumento della violenza – tutto ciò ha un impatto pesante sui bambini» dice. «Muri psicologici» rispecchiano barriere fisiche e posti di controllo. «I bambini formano una mentalità da ghetto e perdono speranza nel futuro, e ciò alimenta un ciclo di disperazione», dice Roni.
Ma le loro esperienze sono inevitabilmente ineguali. Molti bambini che vivono nelle città palestinesi più grandi, in un regime di auto-governo, raramente entrano in contatto con coloni o soldati, mentre tali incontri sono parte della vita quotidiana per coloro che vivono nel 62% della Cisgiordania sotto il completo controllo di Israele, nota come Zona C. I bambini di Gaza vivono in una striscia di terra bloccata, spesso crescono in condizioni di estrema difficoltà economica, e con l’esperienza diretta e sconvolgente di un’intensa guerra. A Gerusalemme Est, un’alta percentuale di bambini palestinesi cresce in ghetti impoveriti, invasi dall’espansione degli insediamenti israeliani o con coloni estremisti che acquisiscono proprietà in mezzo ad essi.
Nelle Valli a sud di Hebron, i pastori che hanno vagato nell’area per generazioni vivono ideologicamente e religiosamente guidati da ebrei che reclamano un’antica connessione biblica alla terra e vedono i palestinesi come intrusi. Hanno costruito insediamenti recintati sulle cime delle colline, serviti da strade asfaltate, elettricità e acqua corrente, e protetti dall’esercito. I coloni e i soldati hanno portato la paura agli abitanti delle grotte: violenti attacchi alla popolazione palestinese locale sono frequenti, insieme a raid militari e alla costante minaccia di rimozione forzata dalla propria terra.
Zona di fuoco 918
Il villaggio di Nawal si trova all’interno di un’area denominata dall’esercito di Israele negli anni 80 «Zona di Fuoco 918» per l’addestramento militare. L’esercito vuole far sloggiare otto comunità palestinesi adducendo che è poco sicuro per loro rimanere all’interno di una zona di addestramento militare; non sono «residenti permanenti». Una battaglia legale sul destino del villaggio, lanciata prima che Nawal nascesse, ancora irrisolta.
La sua scuola, una struttura scarna con tre stanze, è sotto ordine di demolizione, così come l’unico altro edificio nel villaggio, la moschea, che viene utilizzata come aula in caso di sovraffollamento. Entrambe sono state costruite senza il permesso ufficiale di Israele, che non viene concesso quasi mai. Haytham Abu Sabha, l’insegnante di Nawal, dice che le vite dei suoi alunni sono molto dure. «I bambini non hanno momenti di svago. Non hanno le cose fondamentali della vita: non c’è elettricità, hanno un elevato livello di malnutrizione e non hanno luoghi per giocare. Quando sono malati o si fanno male, è difficile portarli in ospedale. Siamo costretti a vivere in modo primitivo».
I bambini sono anche costretti ad essere coraggiosi. Nawal insiste che non ha paura dei soldati. Ma quando le chiedo se ha pianto durante i raid sulla sua casa, esita prima di annuire quasi impercettibilmente, perché non vuole ammettere le sue paure. Gli psicologi e i consulenti che lavorano con i bambini dicono che questa riluttanza ad ammettere e a parlare delle esperienze spaventose compensa il danno causato dall’evento stesso. «I bambini dicono che non hanno paura dei soldati, ma il loro linguaggio del corpo dice cose diverse», dice Mona Zaghrout, direttore della consulenza presso la Ymca a Beit Sahour, vicino Betlemme. «Si vergognano a dire che hanno paura». Ahed Tamimi, 12 anni, gioca a campana, ama i film sulle sirene e prende in giro i suoi fratelli a casa a Nabi Saleh. Come Nawal, la dodicenne Ahed Tamimi asserisce coraggiosamente che neanche lei ha paura dei soldati, prima di ammettere con calma che a volte ha timore. L’apparente mancanza di paura di Ahed l’ha catapultata in un breve momento di notorietà l’anno scorso in un video posto on line, in cui lei affronta arrabbiata i soldati israeliani. La ragazza è stata invitata in Turchia, dove è stata salutata come un’eroina.
Nabi Saleh
In mezzo a colline alberate a circa tre ore di macchina a nord di Jinba, Nabi Saleh è un villaggio di circa 500 persone, la maggior parte delle quali condividono il cognome Tamimi. Dalla casa di Ahed, l’insediamento israeliano di Halamish è visibile attraverso una valle. Fondato nel 1977, è costruito in parte su terra confiscata alle locali famiglie palestinesi. Una base militare israeliana è posizionata accanto all’insediamento.
Quando i coloni si sono appropriati della sorgente del villaggio cinque anni fa, gli abitanti di Nabi Saleh hanno cominciato delle proteste settimanali. I genitori di Ahed, Bassem e Nariman, erano in testa nelle dimostrazioni, che sono per la maggior parte non violente, anche se spesso includono dei lanci di sassi. I militari israeliani puntualmente rispondono con gas lacrimogeni, granate per stordire , proiettili di gomma, getti di fluido maleodorante conosciuto come «skunk» e a volte munizioni elettriche.
Due abitanti del villaggio sono stati uccisi, e circa 350, inclusi molti bambini, feriti. Ahed è stato colpito al polso da un proiettile di gomma. Almeno 140 persone di Nabi Saleh sono state arrestate o messe in prigione in conseguenza dell’attività di protesta, inclusi 40 minorenni. Bassem è stato incarcerato nove volte – quattro volte dalla nascita di sua sorella – ed è stato nominato da Amnesty International un «prigioniero di coscienza»; Nariman è stato fermato cinque volte da quando è cominciata la protesta; e il fratello maggiore di Ahed, Waed, è stato arrestato. Suo zio, Rushdie Tamimi, è morto due giorni dopo essere stato sparato dai soldati a Novembre 2012. Un’indagine delle forze di difesa israeliane ha poi scoperto che i soldati avevano sparato 80 proiettili senza motivo; e avevano anche impedito agli abitanti del villaggio di dare aiuto medico all’uomo ferito.
Ahed, una ragazza esile con la faccia da elfo, è un mix sconfortante di mondanità e ingenuità. Per una bambina, sa fin troppo di gas lacrimogeni e proiettili di gomma, ordini di demolizione e raid militari. La sua casa, sfregiata da ripetuti attacchi militari, è una delle 13 del villaggio che rischiano di essere rase al suolo. Quando le chiedo quante volte ha sperimentato gli effetti del gas lacrimogeno ride, dicendo che non si possono contare. Le chiedo di descriverli. «Non riesco a respirare, gli occhi mi fanno male, mi sembra di soffocare. A volte passano 10 minuti prima che possa di nuovo vedere qualcosa» dice.
Come Nawal, Ahed è abituata ai raid militari sulla sua casa. Uno, mentre suo padre era in prigione, iniziò alle 3 del mattino con il suono dei fucili da assalto che picchiavano sulla porta di ingresso. «Mi sono svegliata e c’erano soldati nella mia stanza. Mia madre urlava contro i soldati. Mettevano tutto sotto sopra, cercando. Presero il nostro computer, le macchine fotografiche e i telefoni». Secondo Bassem, sua figlia «a volte si sveglia di notte, gridando impaurita. La maggior parte delle volte i bambini sono nervosi e stressati, e questo influenza la loro educazione. Le loro priorità cambiano e non vedono l’utilità di studiare e imparare». Coloro che lavorano con i bambini palestinesi dicono che è una reazione comune. «Quando vivi sotto costante minaccia o paura di pericolo, i tuoi meccanismi di difesa si deteriorano. I bambini sono quasi sempre sotto stress, hanno paura di andare a scuola, non riescono a concentrarsi». (…)
La vicinanza, a Hebron
In nessuna altra parte della Cisgiordania i coloni israeliani e i palestinesi vivono in così stretta vicinanza e con maggiore animosità come ad Hebron. Poche centinaia di ebrei ispirati dalla Bibbia risiedono nel cuore della città antica, protetti da circa 4000 soldati in mezzo ad una popolazione palestinese di 170.000 abitanti. Nel 1997 la città è stata suddivisa in H1, amministrata dall’autorità palestinese, ed H2, un’area molto più piccola attorno al vecchio mercato, sotto il controllo dei militari israeliani. H2 ora è quasi una città fantasma: negozi con le persiane chiuse, case vuote, strade deserte, gruppi di cani randagi, e soldati armati praticamente ad ogni angolo. Qui le famiglie palestinesi rimaste sopportano un’esistenza difficile con i loro vicini coloni. A Tel Rumeida, il quartiere di Waleed, praticamente tutti i residenti palestinesi sono partiti. Solo gli Abu Aishes e un’altra famiglia rimangono sulla loro strada, accanto a nuovi condomini di coloni ed edifici mobile. Waleed vive molto più vicino ai suoi vicini soldati e coloni di Ahed Tamimi o di Nawal Jabarin: dalla sua finestra si può vedere direttamente nelle case dei coloni, a pochi metri di distanza. La porta accanto alla sua casa è una base dell’esercito che ospita circa 400 soldati.
A seguito di attacchi violenti, lanci di pietre, finestre fracassate e ripetute molestie dai coloni, gli Abu Aishes hanno eretto una gabbia con rete di acciaio e messo delle videocamere sulla parete della casa a tre piani in cui la famiglia ha vissuto per 55 anni. Quando non è a scuola, Waleed trascorre quasi tutto il tempo dentro questa gabbia. «Per me questo è normale» dice. «Mi ci sono abituato. Ma è come vivere in prigione. Nessuno può venire a farci visita. I soldati fermano le persone in fondo alla strada, e se non sono della nostra famiglia, hanno il divieto di farci visita. C’è solo una strada di accesso alla nostra casa, e i soldati sono lì giorno e notte. Non ricordo nient’altro: sono lì da quando sono nato». Nonostante la sua «normalità», desidererebbe che i suoi amici venissero a casa sua, o che lui e suo fratello potessero giocare a calcio per strada.
La gabbia, e la condanna pubblica scoppiata in Israele a seguito della trasmissione in televisione di una donna ebrea che sibilava «puttana» in arabo attraverso la rete alle donne della famiglia Abu Aishe, hanno ridotto gli attacchi e gli abusi dei coloni. Ma ancora Waleed a volte viene chiamato «asino» o «cane» e a volte viene preso in giro dai figli dei coloni.
Sua madre, Ibtasan, dice che i soldati non fanno niente per proteggere i suoi figli. «Si sono abituati a questo tipo di vita, ma è estenuante. Sono sempre preoccupata» dice mentre immagini della strada sottostante sfarfallano su un monitor televisivo all’angolo del soggiorno. «Era più facile quando erano piccoli, anche se facevano brutti sogni. Dormivano uno accanto a me, uno accanto a mio marito, e uno in mezzo a noi».
Aggressioni fisiche e arresti
Una relazione del 2010 dell’organizzazione per la difesa dei diritti dei bambini Defence for Children International (Dci) diceva che i bambini palestinesi di Hebron erano «frequentemente bersaglio di attacchi dei coloni sotto forma di aggressioni fisiche e lanci di sassi che li ferivano» ed erano «particolarmente vulnerabili agli attacchi dei coloni». (…) «Le persone mi rispettano perché sono stato arrestato tante volte» dice Muslim Odeh, 14 anni, che vive a Silwan, Gerusalemme Est. Un altro padre, il cui figlio adolescente è stato trattenuto dalla polizia israeliana 16 volte da quando aveva nove anni, concorda. «Abbiamo il diritto di difenderci, ma con cosa dobbiamo difenderci? Abbiamo carri armati o caccia da combattimento?» chiede Mousa Odeh. Suo figlio, Muslim, ora 14 anni, è ben noto alle forze di sicurezza israeliane nel quartiere di Silwan a Gerusalemme est. A pochi minuti d’auto dagli alberghi a cinque stelle intorno alle antiche mura della Città Vecchia di Gerusalemme, Silwan si incunea in un canalone, un fitto groviglio di case lungo le strade ripide e strette allineate con le officine di riparazione auto e gli stanchi negozi di alimentari.
È sempre stato un quartiere difficile, ma un afflusso di coloni dalla linea dura ha creato acute tensioni, esasperate dall’aggressione delle loro guardie di sicurezza armate, e dagli ordini di demolizione emessi contro più di 80 case palestinesi. I giovani della zona lanciano pietre e sassi contro i veicoli rinforzati dei coloni, rischiando l’arresto da parte dell’onnipresente polizia. «Ogni minuto vedi la polizia – su e giù, su e giù» dice Muslim. «Ci fermano, ci perquisiscono, ci spiano. Anche io li spio, quando mi annoio li spio. Perché dovrei aver paura di loro?» Il ragazzo insiste nel dire di non essere fra quelli che lanciano sassi, un’affermazione che ostenta ingenuità. «La polizia mi accusa di creare problemi, ma non lancio pietre, mai. Forse alcuni dei miei amici». Hyam, la madre di Muslim, dice che suo figlio, il più piccolo di cinque figli, è cambiato da quando sono cominciati gli arresti. «Lo hanno distrutto psicologicamente. È più aggressivo e nervoso, iperattivo, vuole sempre essere fuori per strada».
Gli arresti di Muslim hanno seguito un modello tipico e ben documentato. Fra 500 e 700 bambini palestinesi vengono arrestati dalle forze di sicurezza israeliane ogni anno, la maggior parte accusati di lanciare pietre. Spesso vengono arrestati di notte, portati via da casa senza un genitore o un adulto che li accompagni, interrogati senza avvocato, trattenuti in cella senza prima apparire di fronte giudice. Alcuni sono bendati o hanno le mani legate con fascette di plastica.
Molti riferiscono di abusi fisici e verbali, e affermano di rendere false confessioni. Secondo Dci, che ha raccolto centinaia di dichiarazioni giurate di minori in Cisgiordania e Gerusalemme est, questi bambini vengono spesso spinti a dare informazioni su parenti o vicini attraverso i loro interrogatori. Muslim è stato trattenuto per periodi che vanno da poche ore a una settimana. Per Muslim, i suoi ripetuti fermi sono un rito di passaggio. «Le persone mi rispettano perché sono stato arrestato tante volte» mi dice. Gli psicologi infantili la vedono diversamente. Dicono che i ragazzi sono spesso festeggiati come eroi quando tornano dalla detenzione, il che nega loro la possibilità di elaborare le proprie esperienze traumatiche ed esprimere sentimenti comuni di ansia acuta. Secondo Zaghrout, ci si spetta che i ragazzi si comportino duramente «Nella nostra cultura, è più facile per le ragazze mostrare paura e piangere. Ai ragazzi viene detto che non devono piangere.
È difficile per i ragazzi dire che hanno paura di andare in bagno da soli o che vogliono dormire con i loro genitori. Ma comunque avvertono questi sentimenti, semplicemente emergono diversamente – negli incubi, bagnando il letto, con l’aggressività». Mousa, il padre di Muslim e l’imam della moschea locale, dice che, a dispetto delle bravate, suo figlio è un ragazzo infelice e insicuro. «Quando arriva l’esercito si incolla a me. Da quando sono cominciati gli arresti, dorme con me. Mentre Mousa parla Muslim improvvisamente esce di casa portando un coltello, intenzionato a forare un pallone da calcio che viene calciato contro il muro di fronte da bambini locali». «Questo è un comportamento disturbato, irrazionale» dice Mousa. «È a causa degli arresti. Hanno distrutto la sua infanzia. Ha visto suo padre, suo fratello, sua sorella che venivano arrestati. C’è un ordine di demolizione che pende sulla casa. La maggior parte dei nostri vicini sono stati arrestati. Questa è l’infanzia di questo ragazzo. Non cresce a Disneyland» (…)
Il momento in cui i bambini realizzano che i loro genitori, specialmente il loro padre, non possono proteggerli, è psicologicamente significativo, secondo gli esperti. (…)
La fiducia nei genitori
Secondo Roni dell’Unicef, «I bambini possono perdere fiducia e rispetto quando vedono il loro padre picchiato davanti a loro. Questi bambini a volte sviluppano una resistenza a rispettare le persone che rivestono un’autorità. Sentiamo genitori che dicono, ‘Non riesco più controllare mio figlio – non mi ascolta.’ Questo crea un grande stress all’interno di una famiglia». Muslim ora salta regolarmente la scuola, dicendo che lo annoia, e trascorre le sue giornate invece vagando per le strade. Secondo Mousa, gli insegnanti del ragazzo dicono che è difficile da controllare, aggressivo e non collaborativo. Alla fine della nostra visita, l’adolescente inquieto ci accompagna alla nostra auto. Saltella lungo la strada, sporgendosi nei finestrini aperti delle auto per ruotare un volante o suonare un clacson e avverte: «Attenti, alcuni bambini potrebbero lanciarvi delle pietre».
Nonostante le loro vite difficili, ciascuno di questi quattro bambini ha una pietra di paragone di normalità nella propria vita. Per Nawal sono le pecore di cui si occupa. Ad Ahed piace il football e giocare con le bambole. Waleed è appassionato di disegno. Muslim si occupa dei cavalli nel suo quartiere. E ciascuno di loro ha un’ambizione per il futuro: Nawal spera di essere un medico, di occuparsi degli abitanti delle grotte e dei pastori delle Colline a sud di Hebron; Ahed vuole diventare avvocato, per combattere per i diritti della Palestina; Waleed aspira ad essere un architetto, per progettare case senza gabbie; e a Muslim piace aggiustare le cose e vorrebbe diventare un meccanico. Ma crescere sotto l’occupazione sta modellando un’altra generazione di palestinesi. I professionisti che lavorano con questi bambini dicono che molti giovani traumatizzati divengono adulti arrabbiati e senza speranza, contribuendo a un ciclo di disperazione e violenza. Ciò che affrontiamo nella nostra infanzia, e il modo in cui lo gestiamo, ci forma come adulti,” dice Zaghrout.
«C’è un ciclo di traumi impressi nella coscienza palestinese, trasmesso di generazione in generazione» dice Rita Giacaman, docente di salute pubblica all’università di Birzeit. «Anche la disperazione viene tramandata. È difficile per i bambini vedere un futuro. Il passato non solo informa il presente, ma anche il futuro».