Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 17/7/2014, 17 luglio 2014
VOLEVO UN CARRO ARMATO
C’è chi dice no e c’è Antonio Conte. Uno che sognava di essere uno e trino e si è ritrovato solo. Suo padre Cosimo, nella juventina Lecce, era presidente, allenatore, massaggiatore, magazziniere e anche ufficio stampa. In altri contesti, Antonio sperava di emularlo. In base ai risultati, straordinari almeno dentro i patri confini, si augurava che Andrea Agnelli e Marotta gli riconoscessero se non l’onnipotenza di Alex Ferguson, almeno quella del suo antico sodale Luciano Moggi. Poter stabilire il mercato, gestire i fondi, giocare da duro abbandonando nell’angolo i soldatini dell’adolescenza per dare l’assalto all’Europa: “Il Bayern Monaco sta costruendo la cima del grattacielo, noi siamo ancora con la paletta e il secchiello”.
LO DISSE nel 2013, dopo una delle poche sconfitte del suo triennio juventino perché perdere “è come morire” e a casa di Conte Antonio: “Contano solo le vittorie. Chi vince scrive e fa la storia, gli altri possono fare solo chiacchiere”. Con la Juventus, il tempo delle parole era finito. Il fair-play finanziario, il realismo, il consiglio di amministrazione, la quotazione in B orsa, le anguste stanze della realtà. Gli hanno opposto un rifiuto, hanno cercato di farlo ragionare, di blandirlo, di calmarne le smanie di fuga. È stato inutile.
Da un pezzo Conte si diceva “stanco”, rifiutava prolungamenti contrattuali, denunciava lo iato tra aspirazioni planetarie, conti societari e concretezza. Il piccolo pianeta del pallone italiano, da anni regolarmente irriso appena un metro al di là di Chiasso, gli stava stretto.
MAROTTA sosteneva che la Juventus potesse competere ad armi pari con il Real? Conte riannodava il gusto per le metafore e dentro il cesto, scopriva solo pistole a salve: “È inutile prendersi in giro, loro sono un carro armato, noi un’automobile”. Nell’ex feudo della Fiat, per volare, quattro ruote non bastavano più. Prima di intuire un certo logico disimpegno dalle parti di Milanello, Conte aveva persino pensato di trasferirsi alla corte di Berlusconi. C’è chi con ragionevole approssimazione giura che i primi dissapori con una proprietà che anche all’epoca della squalifica per omessa denuncia lo aveva atteso e difeso vigorosamente, risalgano ad allora. Può darsi. Come non è escluso che già in vacanza, quando i fotografi lo avevano colto incupito su una spiaggia pugliese, Conte stesse meditando come Dagospia scriveva da mesi, il suo colpo di teatro. Un addio anomalo, in corsa, assolutamente impensabile all’epoca in cui sulla tribunetta di Villar Perosa, pascolavano Platini e Boniek e l’Agnelli vero, Gianni, assisteva alla tradizionale gara in famiglia di inizio stagione sul trono papale. Ora che in piena estate sulla Juventus è piovuto l’inverno e dopo settimane di stucchevoli trattative con il Verona anche le promesse primaverili come Iturbe emigrano più a sud, la scomunica è nell’aria: “Ci ha tradito, non doveva” e la distanza da quell’epoca sembra incolmabile. Per ridurla e restituire l’alone transnazionale che tra il ’70 e il 2000 rendeva Juve sinonimo di dominio, non sono bastati tre scudetti consecutivi.
CONTE temeva di non raggiungere il quarto, disperava sulle prospettive extracampionato, ipotizzava di perdere Vidal e Pogba e osservava non senza dispetto aprirsi il portafogli altrui e tramontare i propri desideri. Sanchez, Suarez, Cuadrado e tutti gli altri fratelli dall’eccessivo ingaggio.
Il prototipo del top player necessario per arrivare in vetta, assoldato sempre altrove, lontano da Torino. Al termine della notte, nel dubbio che la corda lo impiccasse, Conte ha sciolto il nodo. Separazione consensuale, qualche urlo, un turbato comunicato di ringraziamento societario, arrivederci e grazie.
Ora, nella storia tra Conte e la Juventus, Odissea fitta di capitoli e puntellata da andate, ritorni, rotture e nuovi abbracci, si è arrivati all’ultima pagina.
Il ragazzo di Lecce che catapultato al nord, molti anni fa, era in dubbio sul dare del tu a Tacconi, Baggio e Schillaci, perso il formalismo degli esordi, ha iniziato a parlare di sé in terza persona. Questione di carattere, boria direttamente proporzionale alla sapienza tattica, meriti acquisiti sul campo, legittime ambizioni, noia, saturazione. Mentre osservava l’ultima goccia, la Juventus ha aperto l’ombrello accontentandosi di Max Allegri.
La tifoseria non l’ha presa bene.
Dopo l’esperienza di Siena, Conte rianimò un malato reduce da due settimi posti.
Il timore, inconfessabile, è ricadere nel vizio e nell’affezione.
Tornare normali. Immolarsi alla legge del più forte senza più poterla dettare, neanche in casa propria.