Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  luglio 17 Giovedì calendario

SREBRENICA, CONDANNA (A METÀ) PER L’OLANDA


Fu un generale che si sentiva come un dio, Ratko Mladic, che tra l’11 e il 15 luglio del 1995 a Srebrenica uccise a sangue freddo più di 8mila bosniaci musulmani. Quarantamila persone furono deportate, centinaia di donne vennero sistematicamente violentate: nella disattenzione di una calda estate di vacanze si consumò il peggior massacro in Europa dalla Seconda guerra mondiale, in una città che l’Onu aveva dichiarato "area protetta".
L’unica cosa che facemmo allora fu raccogliere testimonianze: a migliaia raggiunsero Tuzla, feriti, disperati, lasciati agonizzare per giorni sulla pista incandescente dell’aeroporto. Nella marcia tra le montagne bosniache alcuni, ridotti alla follia, si uccisero facendosi saltare in aria con le granate pur di non essere presi vivi. Ma nessun racconto, per quanto macabro, smosse le cancellerie internazionali. Fummo complici del massacro anche qui in Occidente. Una risoluzione dell’Onu aveva istituito delle zone protette (tra queste Sarajevo e Srebrenica) e impegnava i Caschi blu a proteggerle prevedendo, all’occorrenza, l’uso della forza.
Ora un tribunale dell’Aja fa giustizia, almeno in parte, condannando lo Stato olandese come civilmente responsabile di questa tragica pagina della storia europea sulla quale tutti dovremmo riflettere con uno sguardo attento anche al presente. Mentre si discute di società multiculturali, si moltiplicano le rivendicazioni religiose, nazionaliste, i particolarismi, qui in Europa e ancora di più in Medio Oriente. Il termine balcanizzazione, nato nell’800, ha ampiamente superato i confini dell’Europa.
Allora i 600 Caschi blu olandesi del battaglione Dutchbat avrebbero dovuto proteggere 300 bosniaci musulmani che si erano rifugiati nella loro base mentre i soldati di Mladic procedevano nel massacro. E invece bastò che i serbi facessero la faccia feroce e i militari olandesi li consegnarono ai loro carnefici. Il cielo sopra Srebrenica intanto veniva sorvolato dai caccia della Nato ma non fu mai dato l’ordine di attaccare. Qualche anno dopo il ministero della Difesa olandese decorò con 500 medaglie il battaglione che doveva proteggere Srebrenica con la motivazione di ricompensare i soldati per le ingiuste critiche ricevute. Gli olandesi riuscirono quindi a sbagliare non una ma due volte.
La Corte ha tuttavia assolto l’Olanda perché non denunciò direttamente i crimini di guerra: l’omissione - questa è la motivazione - non avrebbe comunque potuto impedire la strage. Un ragionamento quanto meno curioso, se non assurdo: sei testimone di un massacro e non lo denunci? Ma c’è di peggio. Le foto dell’epoca mostrano il generale Mladic che a Potocarì brinda allegramente con gli ufficiali olandesi mentre i Caschi blu stavano respingendo centinaia di bosniaci che premevano per entrare nella base e scampare alla morte. Ma la Corte ha ritenuto che l’Olanda non è perseguibile per le azioni dei Caschi blu prima della caduta dell’enclave musulmana.
La verità è che questa sentenza è una mezza vergogna e meglio avrebbe fatto l’Olanda ad assumersi prima le proprie responsabilità evitando, come ha fatto l’anno scorso, di offrire 20mila euro di rimborso ai parenti di tre vittime di Srebrenica, un gesto che è apparso quasi un insulto.
Nel suo libro "Cartoline dalla Fossa" il giornalista e testimone Emir Suljagic racconta quegli eventi. «Incontrai Mladic il 12 luglio a Potocarì dove ero andato come traduttore per i Caschi blu. Il generale mi squadrò. Tremavo di paura e pensavo che mi avrebbe ucciso con gli altri». Mladic, senza una ragione, lo risparmiò, mentre si faceva riprendere dalle telecamere accarezzando la testa di un bambino bosniaco. Così come, senza motivo, i Caschi blu avevano brindato amichevolmente con il generale mentre si scavavano le fosse in cui sarebbe finito anche il nonno di Emir con altre migliaia di vittime. Srebrenica oggi è una città dalla tristezza opprimente, schiacciata tra la montagna e il corso della Drina, un punto sulla mappa di uno degli stati più piccoli d’Europa, la Repubblica Sprska, l’altra entità che insieme alla Federazione croato-musulmana costituisce quel che resta della Bosnia.