Paolo Nori, Libero 17/7/2014, 17 luglio 2014
DOBBIAMO USARE LE PAROLE NEI LIBRI COME LA MOZZARELLA SULLA PIZZA
Ho letto il romanzo di Davide Longo Il caso Bramard (Feltrinelli) dopo aver sentito un’intervista per radio in cui Longo diceva che i romanzi son come le pizze, che fare la pizza non è una cosa difficile, la cosa difficile è farla buona, usare quella mozzarella lì buona, quel pomodoro lì buono, che è una teoria interessante, secondo me. E a me sembra di aver ritrovato questa cura nella scelta della mozzarella e del pomodori nei paragoni costruiti da Longo. Per esempio, a pagina 34: «Percorsero il corridoio, l’uomo basculando sul suo baricentro basso, le gambe tozze e corte, sgraziato come certe macchine costruite per la fatica»; oppure, a pagina 35: «Tra loro un insegnate camminava a capo chino, solo come un prete su un carro di Carnevale»; a pagina 51: «Si fermò ad aspettare che il brutto passasse, solo come un cavallo sotto il temporale»; «I due, forse fratelli, si aggiravano con aria svogliata tra le auto, tutte Bmw, Audi e Mercedes di grossa cilindrata, aprendo il cofano o chinandosi a controllare i cerchioni, come si verificherebbero i genitali di un toro a una fiera paesana» (p. 56); «Corso abbassò gli occhi sui sandali. Il cuoio sopra le dita era sbiadito, come se li avesse indossati qualcuno che attendeva da anni sul bagnasciuga, con le onde che gli salano la punta dei piedi» (p. 72); «Un silenzio che l’aveva spossato, come stancano gli addii di cose taciute» (p. 91); «La vecchia Faema sfiatò, come un bovino costretto ad alzarsi, e il caffè cominciò a colare rugginoso nella tazza» (p. 101); «I polsi le uscivano dalle maniche del giubbotto come snodi di una vecchia lampada da tecnigrafo» (p. 111); «Aveva sentito l’odore della sua pelle appena entrata nella sala interrogatori. Un odore complesso e riposante, come le cose così vecchie che non vale la pena chiedersi quando sono nate» (p. 125); «Madame Gina prese una sigaretta dalla scatola d’alabastro che stava sul tavolino come un animaletto desideroso di essere toccato solo da lei» (p. 140); «Rise Gina, poi sollevò la mano e lo salutò come si salutano i bambini sulle giostre e una parte della giovinezza” (p. 145); « “Torni a trovarci” disse prima di avviarsi verso il gabbiotto, con l’andatura di chi aspetta un sassata nella schiena da un momento all’altro» (p. 174); «Alviano fece un passo all’indietro, come un grosso erbivoro che vuole sfilarsi da una posizione di svantaggio» (p. 191); «Il suo petto si alzava e abbassava con la fragilità di una crosta di pane» (p. 218). Ecco. Io, probabilmente ho un gusto primitivo, questi pomodori e queste mozzarelle mi sembrano, devo dire, un po’ troppo ricercati. I primi scrittori che mi sono piaciuti, tra quelli che ho conosciuto, eran scrittori che facevano a Modena una rivista che si chiamava Il semplice, e lì a Modena, dove la facevano, loro chiedevano a quelli che volevano pubblicare sul Semplice di leggere i loro racconti, ad alta voce, davanti alla redazione, e poi i redattori, che erano, tra gli altri, Gianni Celati, Ermanno Cavazzoni, Daniele Benati e Ugo Cornia, dicevano cosa ne pensavano, e avevano una specie di gergo che non è che si capiva subito, se il giudizio era positivo o negativo, per esempio se di una cosa dicevano che era «scritta bene», voleva dire che non gli era piaciuta, che la trovavano scritta bene, e basta, senza altre qualità, invece se una cosa era «strampalata» voleva dire che gli era piaciuta. Provo a fare un esempio. Uno di questi scrittori, Daniele Benati, qualche anno fa ha provato a tradurre un racconto di Beckett in dialetto reggiano. Il racconto di Beckett cominciava con l’espressione: «I was feeling awful», che Daniele ha tradotto così: «A stèv mäl» («Stavo male»). C’è un traduttore italiano (Valerio Fantinel), che ha tradotto quel racconto in italiano prima che Daniele lo traducesse in reggiano e quell’ inizio lì, «I was feeling awful», l’ha tradotto così: «Avevo una tarantola di inquietudini in petto». Quando Daniele mi ha raccontato questa cosa io mi son chiesto cos’aveva pensato Fantinel; «Beckett ha preso il Nobel» deve aver pensato, «non può mica scrivere “Stavo male”. “Stavo male” son capaci tutti, di scriverlo, Beckett gli han dato anche il Nobel, non può scrivere una cosa del genere. Ha preso anche il Nobel». Come se i libri belli dovessero essere fatti di materiale pregiato, mozzarelle selezionate, pomodori biologici; invece Beckett, secondo me, che mette in scena dei barboni, della gente che dorme sulle panchine e che si nutre con la spazzatura, uno dei motivi per cui è bravo, forse, è il fatto che riesce a mettere in bocca ai quei personaggi lì una lingua coerente con la loro fisionomia. Beckett, mi sembra, non ha nessun desiderio di fare bella figura, non vuole un bel voto, non vuole un giudizio positivo su tripadvisor, i suoi personaggi quando stan male stan male, e per me, come lettore, è un sollievo, trovare ogni tanto delle cose che non sono oggetti di design, son delle cose, chissà se si capisce.