Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 17/7/2014, 17 luglio 2014
ROMA —
«Noi non vogliamo delegittimare nessuno, ma il fine non giustifica i mezzi e le regole vanno sempre rispettate da parte di tutti; non esistono Procure di serie A e di serie B», attacca un consigliere. Ribatte un altro: «Mi viene difficile pensare che non ci sia voglia di delegittimazione dopo che da mesi si tiene sulla graticola un ufficio giudiziario che tanto ha fatto per il nostro Paese, arrivando all’inaudita richiesta di sollecitare un’ispezione ministeriale». Il primo replica ancora, e si va avanti così per quasi tre ore. Al Consiglio superiore della magistratura va in scena il nuovo atto del «caso Milano», stavolta circoscritto (ma non tanto) alla presunta mancata collaborazione tra la Direzione antimafia guidata da Ilda Boccassini e la Procura nazionale. Per alcuni si tratta di un arbitrio che non può essere tollerato, per altri di diverse interpretazioni delle norme su cui l’organo di autogoverno non può interferire. La conclusione è racchiusa in un paio di votazioni (una che spacca il Csm a metà, 10 contro 9, l’altra con 18 sì e 6 astenuti) che per un verso archiviano la vicenda, ma per altri la riaprono. Almeno in teoria, e sul piano mediatico.
Le relazioni approvate, infatti, sanciscono che non ci sono profili di «incompatibilità ambientale» del pubblico ministero antimafia e del procuratore Edmondo Bruti Liberati, né rilievi sull’organizzazione dell’ufficio. Tuttavia stabiliscono di inviare gli atti «per ogni valutazione di competenza» sia ai titolari dell’azione disciplinare che alla quinta commissione dello stesso Csm, che valuta il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi. Decisione che permette di dire, a chi vorrà brandirla, che sul capo di Boccassini e Bruti resta la spada di Damocle di eventuali provvedimenti a loro carico, o di negative ipoteche per il proseguimento della carriera. Ma a parte che si tratta di ipotesi astratte, di là da venire e dall’essere prese in considerazione, restano le scorie disseminate dallo scontro ancora in atto tra il procuratore Bruti e l’altro aggiunto Alfredo Robledo. E separano chi vorrebbe proteggere quell’ufficio da nuove delegittimazioni (sia pure votando una relazione in cui si stigmatizzano le «oggettive criticità» nei rapporti tra quell’ufficio e la Superprocura antimafia), da chi rivendica il diritto di distribuire rimproveri senza timori di strumentalizzazioni.
«Evidentemente a Milano tengono ‘a capa tosta , la testa dura», s’infervora Giuseppina Casella, della corrente Unità per la costituzione, rivendicando che poche settimane fa «il Csm ha avuto il coraggio di dire che il procuratore della Repubblica non è al di sopra della legge, nonostante il diverso auspicio del capo dello Stato, e noi abbiamo il dovere di ribadire certi concetti». Replica l’indipendente Nello Nappi: «Stiamo mettendo in croce la magistratura di Milano, ci stiamo distruggendo con le nostre mani». Vittorio Borraccetti, di Magistratura democratica, reagisce a chi ha sostenuto che il fine non giustifica i mezzi: «Ma che dite? Quella Procura non ha mai violato alcuna regola nelle indagini, né preso scorciatoie sull’esercizio dell’azione penale. Abbiamo già fatto troppi danni, cerchiamo di mantenere la misura». Replica che offre il quadro del dibattito (e delle divisioni): «Come mai quando discutiamo di Milano s’invocano sempre sobrietà e senso della misura?».
Giovanni Bianconi