Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  luglio 17 Giovedì calendario

PRODI E IL CASO COMPRAVENDITA: GIRAVANO CHIACCHIERE

Se mai se ne fosse dimenticato, ieri Romano Prodi ha dovuto rifare i conti con l’abitudine della politica di interpretare le parole. L’occasione è stata la testimonianza che il professore bolognese ha tenuto in tribunale a Napoli al processo per la presunta compravendita dei senatori che vede imputati Silvio Berlusconi e Valter Lavitola.
Per spiegare quali informazioni gli arrivarono in quei mesi tra il 2007 e il 2008, quando scattò la cosiddetta «operazione libertà», vale a dire l’offensiva di Forza Italia per sottrarre senatori alla maggioranza di centrosinistra e portarli nel proprio schieramento in modo da mettere in crisi il governo, Prodi — che di quel governo era il capo — ha usato il termine «chiacchiericcio». Lui, cioè, all’epoca era a conoscenza del chiacchiericcio che girava negli ambienti politici circa i metodi della campagna acquisti di Berlusconi, ma non ebbe nessuna informazione precisa, «altrimenti — ha aggiunto volendo fare evidentemente una battuta — a quest’ora sarei ancora presidente del Consiglio». Informazioni precise su quegli avvenimenti, Prodi ha riferito di averne avute soltanto nel giugno dello scorso anno, quando Sergio De Gregorio (che ha ammesso di aver ricevuto da Berlusconi, tramite Lavitola, tre milioni di euro per cambiare schieramento) gli inviò una lettera in cui gli chiedeva scusa per come agì. Lettera che l’ex leader dell’Ulivo ha consegnato alla Corte e che è stata acquisita agli atti del processo.
La testimonianza di Prodi si è rivelata meno lunga di quanto ci si potesse aspettare, e gli stessi avvocati di Berlusconi — Nicolò Ghedini e Michele Cerabona — non hanno protratto a lungo il controesame. Ma quel termine «chiacchiericcio» che in aula non ha riscosso nessuna particolare reazione né da parte dei pubblici ministeri Vincenzo Piscitelli e Fabrizio Vanorio né dai difensori, rimbalzato negli ambienti politici è stato interpretato come una smentita dell’ex presidente del Consiglio alle tesi che la Procura sostiene contro Berlusconi. L’incarico di tradurre in valutazioni processuali quella parola usata da Prodi se l’è assunto il vicecoordinatore campano di Forza Italia, Amedeo Laboccetta. «Quello che doveva essere il teste principale d’accusa si è rivelato un indiscutibile punto a favore della difesa», sostiene l’esponente berlusconiano, secondo cui Prodi si è «soffermato sui “si dice” sui “si racconta”, molte chiacchiere e zero contenuti. La dimostrazione più chiara che Silvio Berlusconi nulla c’entra con questa vicenda».
E così rientrato a Bologna, il Professore ha dovuto chiarire di non aver smentito niente, ma di essersi solo «limitato a rispondere alle domande che gli sono state poste, riferendo ciò che sapeva».
Fulvio Bufi