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 2014  luglio 17 Giovedì calendario

BARTALI, I SUOI CENT’ANNI DA ITALIANO IN GITA

Ponte a Ema è uno scodinzolo di paese lungo una strada, una frazione divisa a metà tra Firenze e Bagno a Ripoli. La via principale è via Chiantigiana, che a un certo punto diventa una strettoia. Là dove parte via di Campigliano c’è una casa che fa angolo, un edificio a due piani al civico 118: una piccola porta in legno e, accanto, un’edicola-libreria con l’insegna L’Intramontabile . Qui comincia uno dei grandi romanzi del Novecento italiano. Un romanzo che è un uomo. Si chiama Gino Bartali.
Lo spazio fra la porta e la finestra al primo piano è occupato da una targa: “Gino Bartali (1914-2000) nacque in questa casa. Di qui iniziò la sua corsa per le strade della vita e dello sport. Suscitò entusiasmo e passioni fino a entrare nella leggenda”. Accadeva cento anni or sono, il 18 luglio 1914, dieci giorni dopo sarebbe scoppiata la Prima guerra mondiale. Da questa casa d’angolo, da questa strettoia, sbuca come in fuga Ginettaccio, quel naso triste come una salita, quegli occhi allegri da italiano in gita, secondo la fotografia di Paolo Conte. E da qui comincia il bartalismo, che non è un’ideologia, né una corrente di pensiero, non è una tendenza culturale, ma un carattere che si fa azione, quasi una condizione dell’anima, un modo di affrontare la vita, un atteggiamento etico-spirituale.
Intanto, la carta d’identità e i fatti, da cui discendono tutte le leggende e le storie. Gino nasce da Torello, contadino e muratore, e da Giulia Sizzi, venerata come una madonna. Un metro e 72 per 70 chili, più di 150.000 chilometri a pedali, 836 corse, 124 vittorie, solo 28 ritiri in vent’anni di professionismo, 1935-1954: tre Giri d’Italia, due Tour de France, quattro Milano-Sanremo e quattro campionati italiani. E tutto questo, almeno nei racconti, non ha mai fine.
Non ha fine perché continua nel bartalismo. Che non è appannaggio dei soli bartaliani: non c’entra con il tifo e con l’ammirazione sportiva. È qualcosa di più articolato e intimo. C’entra con un modo d’essere. Con il modo d’essere di Ginettaccio. E con la sua faccia. Perché bisogna averci la faccia, da bartalismo: una faccia spiccia, ma intensa, generosa, con quel naso lì, frutto di una caduta a vent’anni, quel semibroncio in fondo allegro, un muso crudo e vissuto che brontola ma non demorde.
Non ci sono adepti del bartalismo, solo compagni di strada. In tutti i campi. Per esempio: Bersani e Zeman, e prima di loro Bearzot e Berlinguer; Paolino Pulici e Marco Tardelli, come pure la Vezzali; Mariangela Melato e Giancarlo Giannini, così come Luca Ronconi e Paolo Sorrentino, e Gianmaria Volonté; Fenoglio e Meneghello con la penna, ma anche Lucio Dalla e Vasco Rossi. Però qui, per spiegare il tutto, deve entrare in corsa Fausto Coppi.
Quando parli di Bartali, prima o poi salta fuori Coppi. E viceversa. Non può essere altrimenti. Dividendo gli italiani e facendoli entusiasmare, li tenevano uniti. In effetti, coppiani e bartaliani esistevano prima di Coppi e Bartali, sin dai tempi di guelfi e ghibellini. È stato naturale per i tifosi, negli anni ‘40-’50 del secolo scorso, mettersi in fila dietro i due campioni, secondo uno schema semplice e strumentale: quello di centro e quello di sinistra, il cattolico e il laico, il marito fedele e l’uomo trasgressivo, Gino Bartali, che beveva mangiava fumava e in gara dava fondo a tutte le energie, e Fausto Coppi, il predestinato, il corridore scientifico, tutto calcoli e strategia.
Di vero c’è che Coppi è un semidio e Bartali un eroe; Coppi è un poeta e Bartali un romanziere; Coppi è il volo ad ali spiegate, Bartali è la fatica ripiegata sul manubrio. Anche da questa diversità prende consistenza il bartalismo . Che si manifesta al suo massimo in questi quattro episodi.
1940. Bartali ha 26 anni, è il capitano, Coppi ne deve compiere 21 ed è suo gregario al Giro. Gino cade e rimane attardato. Fausto vince una tappa e conquista la maglia rosa. A quel punto, il campione si mette a servizio del ragazzino. E quando quello, sulle Alpi, vuole ritirarsi in preda ai crampi, gli fa una sfuriata, lo rimette in sella e lo scorta al traguardo: il suo primo Giro, Coppi, lo vince grazie a Bartali.
1943-1944. Bartali aiuta 800 ebrei, alcuni li ospita, per altri trasporta documenti e foto da Firenze ad Assisi nel telaio della bici. Non ha mai detto nulla: perché certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca. Per questo, lo scorso settembre è stato dichiarato “Giusto fra le nazioni” dallo Yad Vashem, l’ente israeliano per la Memoria della Shoah.
1948. Bartali al Tour ha un ritardo di 21 minuti da Bobet. Il 14 luglio è giorno di riposo. In Italia si consuma l’attentato a Togliatti, segretario del Pci. Il paese è sull’orlo della guerra civile. Il presidente del consiglio De Gasperi, democristiano, telefona a Bartali chiedendo di vincere la tappa del giorno dopo, se può. Ginettaccio può: il 15 luglio trionfa nella Cannes-Briançon, riducendo a un minuto il distacco dal primo in classifica, e il 16 vince la Briançon-Aix les Bains conquistando la maglia gialla, poi difesa fino a Parigi. La favola vuole che la sua vittoria abbia evitato la guerra civile.
1952. Altro Tour, Bartali ha 38 anni, Coppi è in maglia gialla. Il 4 luglio sul Galibier viene scattata la più famosa fotografia dell’immaginario sportivo: Coppi è davanti e tende il braccio all’indietro, Bartali lo segue e allunga la mano con una bottiglia. Chi la passa a chi? Nemmeno questo Bartali vorrà rivelare chiaramente. Ma è lui ad allungarla al compagno-avversario di una vita.
Ci sono i coppiani, ma il coppismo non esiste: Coppi è un uomo solo al comando, è moderno. Bartali ragiona per gli altri, è un uomo antico. Di questo è fatto il bartalismo , di quell’antichità di cui i nostri giorni hanno bisogno.