Silvia Bencivelli, la Repubblica 17/7/2014, 17 luglio 2014
IL VIRUS CHE GUARISCE
Non è l’inizio di un filmone catastrofico in stile hollywoodiano, di quelli in cui qualcosa sfugge di mano a uno scienziato incosciente e poi magari arrivano anche gli zombie. È la realtà dei laboratori di oggi, e molto probabilmente delle nostre terapie di domani: stanno arrivando i virus. Non più nei panni di sterminatori invisibili, ma come alleati dei camici bianchi nella cura delle malattie. Perciò, se ai “batteri buoni” ci ha abituato anche la pubblicità dello yogurt, prepariamoci a sentir parlare sempre più spesso di “virus buoni”, che niente hanno a che vedere con il cinema e con improbabili epidemie annientatrici dell’umanità. Al contrario. I virus buoni sono ovunque, e da sempre, intorno
a noi.
Per esempio sono nell’acqua di mare, dove sguazzano tranquilli virus che preferiscono attaccare i batteri piuttosto che organismi complessi, e che quindi possono essere usati al posto degli (o insieme agli) antibiotici. Questi virus si chiamano batteriofagi, cioè “mangiatori di batteri”, e si conoscono più o meno dalla fine dell’Ottocento, cioè da quando un medico inglese notò che c’era qualcosa nelle acque del Gange capace di limitare le epidemie di colera. Qualche anno dopo, nel 1917, un medico militare francese capì che questo qualcosa erano virus e, per provare che potevano essere usati senza problemi nella terapia delle malattie infettive,
se ne bevve un bicchierone. Cominciò così la loro vita da virus buoni (buoni dal punto di vista degli umani) e lì per lì a qualcuno sembrò che questa vita sarebbe stata lunga e piena di successi. Invece nel 1928 furono scoperti gli antibiotici e la terapia antibatterica a base di virus rimase in un cassetto. Almeno in Occidente, e almeno fino a oggi.
Nei Paesi del blocco sovietico, invece, i batteriofagi sono stati usati a lungo per sopperire alla mancanza di farmaci, solo che le ricerche sul tema sono state scritte in cirillico e gli scienziati occidentali le hanno ignorate a lungo (e tuttora le ignorano). Oltre al fatto che si tratta comunque di virus, per cui ogni alternativa, da queste parti, è sempre state considerata preferibile. Ma le cose stanno cambiando in fretta: i batteri si sono abituati ai nostri antibiotici e hanno sviluppato strategie di resistenza ai farmaci. Così a qualcuno è venuta l’idea di tornare ai vecchi batteriofagi.
Lo stanno facendo gli scienziati americani, che in questi mesi cominciano a riabilitare le terapie di oltrecortina. Ma lo sta facendo anche la Commissione europea con un finanziamento di 3,8 milioni di euro per lo studio Phagoburn, che da settembre vedrà ricercatori francesi, belgi e svizzeri curare gli ustionati gravi con cocktail di virus batteriofagi. Resta da capire, sottolinea la rivista Nature, se le grandi company farmaceutiche saranno poi interessate a investire in queste terapie: trattandosi di scoperte di un secolo fa, e di virus raccolti in natura, difficile dire che cosa sarà possibile brevettare. Per adesso si segnala il lavoro della start-up francese Pherecydes Pharma, che ha avviato le sue sperimentazioni un paio di anni fa, come racconta Le Monde, nello scetticismo generale.
Virus buoni come arma contro le terapie infettive sono poi, da almeno due secoli, quelli resi innocui per l’uomo e usati contro i virus cattivi. Cioè i virus impiegati nei vaccini. Hanno già sconfitto malattie mortali come il vaiolo, la poliomielite e il tetano. E presto faranno lo stesso con il tumore al fegato da virus dell’epatite B e col temibile morbillo.
Mentre un altro virus buono è quello che un giorno potrebbe guarire i tumori. Per esempio l’antipatico virus dell’herpes che anche in Italia (all’università di Bologna) è stato trasformato in un proiettile di precisione diretto contro le cellule del tumore del seno e dell’ovaio. Un virus come questo viene citato in Io sono leggenda , il film campione di incassi nel 2007: lì la maldestra scienziata causa un’epidemia che stermina uomini e animali da salotto. Nella realtà, l’unico vero timore, tra gli addetti ai lavori, è che i risultati delle sperimentazioni cliniche possano essere un po’ deludenti.
Ma sono i virus impiegati nella cosiddetta terapia genica i veri campioni del premio bontà. Questi virus vengono svuotati del proprio Dna e riempiti con geni umani sani da trasportare nelle cellule colpite da malattie genetiche, geni sani che possono sostituire quelli che non funzionano o funzionano male. Sono come “siringhe” cellulari, precisissime.
La storia della terapia genica è costellata di grandi risultati, a partire dalla prima bambina che fu guarita da una grave malattia genetica nel 1990. Ma anche di fragorosi insuccessi. In questi casi, però, il problema non è stato il virus, ma l’inserimento, non così controllato, di un pezzo di Dna dentro a un altro Dna. Tanto che a fare la parte del virus buono troviamo insospettabili come il virus del raffreddore, il virus dell’herpes, il virus che causa la leucemia nei topi e persino l’Hiv.
Sì, l’Hiv. L’idea di usarlo venne nei primi anni novanta a Luigi Naldini, allora cervello italiano in America e oggi direttore dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica (Tiget): «Quando nel 1996 uscirono su Science i risultati delle nostre ricerche ci fu un grande interesse, ma anche un grande scetticismo», racconta. L’Hiv faceva (a ragione) paura. Anni dopo, le cose sono molto cambiate. Anzi, «proprio un anno fa, e proprio con questi virus modificati, abbiamo dimostrato che è possibile sviluppare la terapia di due gravi malattie genetiche: la leucodistrofia metacromatica e la sindrome di Wiskott-Aldrich». Lo stesso gruppo è poi riuscito a superare i problemi di cui sopra grazie a una tecnica, pubblicata su Nature alcune settimane fa, che cambierà presto le cose «perché permette di riparare i geni malati direttamente sul filamento di Dna grazie a una specie di piccolissimo bisturi molecolare ». Ed è così che le terapie a base di virus buoni sono sempre più vicine a entrare nella routine medica. E sempre più lontane dalle favole di Hollywood.