Federico Rampini, Affari & Finanza 14/7/2014, 14 luglio 2014
CHI SUBISCE LE CONSEGUENZE DELLA POLITICA DEL TASSO ZERO
È di nuovo alle stelle l’agitazione sui mercati per l’avvicinarsi della «fine del tasso zero». È dal 2009 che la Federal Reserve tiene inchiodati i suoi tassi direttivi a livello zero, una manovra d’emergenza dettata dalla gravità di quella crisi. Ora, dopo cinque anni di ripresa e con la disoccupazione scesa al 6% della forza lavoro, la Fed lascia capire che l’autunno 2015 potrebbe vedere un rialzo dei tassi. Forse (dipenderà da come procede la ripresa, con quali effetti sul mercato del lavoro).
Ma questa politica del tasso zero – successivamente copiata dalla Bce che di recente è scesa perfino al tasso negativo – è stata tutt’altro che indolore. In America una schiera di detrattori hanno accusato la Fed di lassismo.
L’accusa classica, che riecheggia l’ortodossia monetarista, è quella di alimentare l’inflazione. Ma d’inflazione non v’è traccia finora. Un’altra accusa che talvolta si ammanta di un linguaggio progressista, è quella di affamare le vedove e i pensionati. L’argomentazione è la seguente. Viviamo da cinque anni sotto una «grande repressione», nel senso che la banca centrale ha represso la nostra naturale richiesta di un rendimento. Ci siamo dovuti rassegnare al fatto che tanti tipi di investimenti tradizionali, prudenti, da buon padre di famiglia, non rendono più nulla. Certificato di deposito in banca, libretto di risparmio, libretto postale, buoni del Tesoro, tutti offrono degli interessi ridicoli. Secondo questa argomentazione, le vittime che pagano più duramente sono categorie deboli: gli anziani che dal rendimento dei certificati di deposito o dei libretti di risparmio o dei Treasurys Bonds ricavavano un’integrazione della pensione; o le famiglie del ceto medio che con quei risparmi cercavano di costruirsi un cuscinetto di sicurezza, pagare gli studi universitari ai figli, e così via. Secondo questo ragionamento, la politica ultra-espansiva della Fed ha finito per danneggiare proprio i ceti sociali che già erano stati colpiti duramente dalla recessione del 2009.
Il premio Nobel Paul Krugman smentisce quella tesi, con l’ausilio di dati raccolti dallo studio di Thomas Piketty sulle diseguaglianze. Krugman rivela che in America i percettori d’interessi sono prevalentemente ricchi. Nel 2012 gli americani della terza età hanno incassato in media 3.000 dollari di interessi. Ma la metà di loro ha percepito molto di meno: dai 255 dollari in giù. Cioè un’inezia. Insomma, ad avere certificati di deposito o libretti di risparmio sono prevalentemente i pensionati privilegiati, la stragrande maggioranza degli anziani non ha quasi nessun risparmio.
La politica del tasso zero ha danneggiato un’infima minoranza, “neppure l’1%, piuttosto lo 0,1% o addirittura lo 0,01%” secondo Krugman-Piketty. Se si risale al 2007, nell’ultimo periodo precedente la recessione, un membro del “club” esclusivo dello 0,01% (gli straricchi) ha percepito in media 3 milioni di dollari di interessi sui suoi risparmi. Qui si parla solo di interessi su investimenti a reddito fisso, non dividendi azionari ne` capital gain. Nel 2011, dopo due anni di politica del tasso zero da parte della Fed, quello stesso americano straricco ha visto il suo reddito da interessi decurtato a 1,3 milioni, cioè meno della metà. Una perdita che pesa quanto il 9% del suo reddito totale. Questo, sempre secondo Krugman, spiega i «toni isterici» delle critiche alla Fed. «I ricchi – scrive il premio Nobel – sono sempre convinti che quel che è bene per loro è bene per l’America. E trovano sempre dei presunti esperti che sono pronti a trovare giustificazioni per loro».