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 2014  luglio 14 Lunedì calendario

ARGENTINA, LA VIA GIUDIZIARIA AL DEFAULT

Quando Axel Kicillof è sbarcato a New York lunedí scorso c’erano tanti fotografi e telecamere, quasi fosse arrivato Lionel Messi. Il nome non inganni, Axel (di famiglia ebrea) è un porteño doc, un argentino cresciuto nel ricco quartiere della Recoleta a Buenos Aires, e dell’Argentina è dal novembre del 2013 il ministro dell’Economia.
Accolto come una star – «Derek, Derek», ha urlato una piccola folla che lo ha confuso con il campione (Derek Jeter) dei New York Yankees – per un viaggio non facile, quello che di lì a poco lo avrebbe portato (nascosto in un Suv coi vetri schermati) dentro un lussuoso ufficio legale di Park Avenue. Per una difficile e lunga trattativa (quattro ore e mezzo) con il mediatore Daniel Pollack, scelto dal giudice federale di Manhattan Thomas Griesa, l’uomo che con una sentenza (emessa a 9mila chilometri di distanza da Buenos Aires) ha portato il paese sudamericano sull’orlo di un nuovo default.
La storia è quella ormai più che decennale dei tango bond, una vicenda esplosa nel 2001, quando il governo argentino dichiarò la moratoria sul debito (95 miliardi di dollari) congelando il pagamento degli interessi e sospendendo il rimborso dei titoli in scadenza. Per i milioni di risparmiatori (mezzo milione solo in Italia) in possesso dei tango bond fu uno shock: da un giorno all’altro i loro risparmi erano andati in fumo, inghiottiti da quel nulla finanziario che era diventato l’ingente debito estero del paese del Cono Sud.
L’Argentina andò in default e la trattativa sul destino dei detentori dei tango bond si inoltrò in un mare di complicatissime trattative diplomatico-finanziarie. Solo nel 2005 (con la presidenza di Nestor Kirchner) avviene il primo swap, una sorta di volgare baratto: ai risparmiatori di tutto il mondo in possesso dei titoli del debito argentino vengono offerti altri titoli (trentennali), però con un bel taglio del 70 per cento rispetto al valore originario. Prendere o lasciare, non tutti aderiscono.
Cambiano i presidenti, Cristina Kirchner succede al marito (morto) e nell’emisfero nord del mondo, nella città che è la capitale finanziaria del pianeta Terra, un giudice mastino decide di fare dei tango bond la sua personale (e legittima) crociata legale. Thomas Griesa, 84 anni il prossimo ottobre, americano di Kansas City nominato giudice federale da Nixon nel lontano 1972, decide di riportare indietro le lancette di dieci anni. Con un’ordinanza depositata presso il tribunale del Southern District di New York, nel febbraio 2012 il giudice - che già in passato si è pronunciato su vicende sudamericane - intima all’Argentina di pagare le cedole anche a chi non ha aderito agli swap (del 2005 e del 2010), appellandosi al principio del “pari passu” che prevede che gli obbligazionisti siano tutti trattati nello stesso modo. Lo fa per difendere i risparmiatori americani, quelli che si sono rivolti a lui (e al tribunale), tra cui grandi investitori come il fondo Nml Capital Ldt. (della società di investimento Elliott) che ha 650 milioni di dollari tra titoli e interessi argentini.
Il resto è storia dell’ultimo mese. Con la sentenza definitiva di Griesa, il ricorso dell’Argentina alla Corte Suprema degli Usa che lo respinge, le dichiarazioni prima bellicose (“è un’estorsione”) poi più possibiliste di Cristina Kirchner (“siamo pronti a pagare”), infine la richiesta di Buenos Aires di spostare la scadenza-ultimatum dal 30 giugno alla fine di luglio.
La patata bollente - mentre l’Argentina, intesa come paese, era ovviamente più appassionata alle avventure della Selección di calcio in terra dei nemici brasiliani - è tutta nelle mani del prode Axel. La proposta illustrata dal ministro dell’Economia argentino nel suo lungo incontro con Pollack a Park Avenue offre una soluzione: pagare il cento per cento del dovuto agli ”hedge fund” che non hanno accettato il concambio dei tango bond (rispettando la sentenza del tribunale di Manhattan) evitando di cadere in un nuovo default tecnico sul pagamento ai detentori di titoli che sono entrati nello swap.
Si tratterebbe di pagare 1,65 miliardi di dollari (1,3 della sentenza originale, più interessi e multe) con due tipi di bond: il Bonar 24, lo stesso usato per coprire il debito con la società petrolifera Repsol dopo la sua estromissione da Ypf, e un nuovo titolo. Nelle intenzioni della Casa Rosada l’operazione dovrebbe avvenire a gennaio 2015, una volta scaduta la cosiddetta clausola Rufo (Right Upon Future Offers), che esporrebbe l’Argentina a possibili cause dei detentori di titoli ristrutturati, che potrebbero in futuro - ricorrendo ai tribunali - esigere il pagamento del cento per cento del valore dei loro bond, fortemente ridotto nei successivi swap del 2005 e 2010. È proprio per evitare la clausola Rufo che l’Argentina dovrà ripagare (senza avere sconti) gli ‘hedge funds’. Secondo lo scenario di Axel Kicillof il giudice Griesa da parte sua dovrebbe affermare che il pagamento non è “volontario” ma dipende dall’applicazione di una sentenza negativa e rinnovare lo ‘stay’ (la sospensione dell’applicazione) su questa sentenza: per non compromettere il pagamento di 539 milioni di dollari ai detentori di titoli ristrutturati, bloccati attualmente nei conti della Bank of New York Mellon e che scadono il prossimo 31 luglio.
Tra il ministro dell’Economia argentino e Jay Newman (senior manager di uno dei fondi) c’è stato un pesante scambio di opinioni via Financial Times. “Noi holdout siamo aperti al compromesso, ma l’Argentina deve dialogare” si intitolava il commento pubblicato dal quotidiano finanziario britannico. E Newman spiegava come “durante più di 12 anni abbiamo cercato di convincere l’Argentina di lasciare da parte il suo default del 2001, negoziando in buona fede con i detentori dei bond”.
“Avvoltoi giudiziari e finanziari”. Questa la replica stizzita di Kicillof per il quale gli hedge funds non sono creditori in buona fede dei paesi emergenti: “Hanno comprato bond per circa 50 milioni di dollari e ora l’ordine del giudice Griesa gli permetterebbe di incassare 80 milioni, assicurandosi una rendita del 1600 per cento. Se invece di fare causa avessero accettato i concambi offerti dall’Argentina avrebbero triplicato o forse quadruplicato il loro investimento”.