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 2014  luglio 14 Lunedì calendario

QUANTO CI COSTA SNOBBARE BRUXELLES

Il motivo per il quale il Gsm è lo standard per la telefonia mobile più diffuso nel mondo è che è quello adottato nell’Unione Europea, il mercato più ricco del pianeta con quasi mezzo miliardo di consumatori affluenti. Come per i cellulari, l’Europa determina regole e standard praticamente in tutti i settori produttivi, che valgono per i paesi dell’Unione ma che finiscono in molti casi per valere ovunque. I grandi lobbisti americani se ne sono accorti e aprono uffici a Bruxelles, considerandola importante quanto e più di Washington per gli interessi dei loro clienti. Non è un caso che nel Transparency Register della Ue siano iscritti oltre 6 mila 600 rappresentanti di gruppi di interesse, dai lobbisti ai consiglieri di più varia natura, ai rappresentanti di territori ai rappresentanti di ordini religiosi: nella capitale dell’Unione si legifera su moltissimi temi e in particolare esce da lì l’80 per cento delle regole che incidono sui mercati.
Quelle regole non sono elaborazioni di autistici funzionari comunitari (in tutto 20 mila, meno del Comune di Roma) ma sono il frutto di processi complessi ai quali partecipano tutti i soggetti interessati e soprattutto i paesi dell’Unione, che con i loro funzionari elaborano i testi e con i loro parlamentari europei e i loro ministri li deliberano. Non c’è, in questa produzione normativa, una cessione di sovranità ma una condivisione di sovranità.
Il problema è che per influire su queste complesse procedure tutelando nei limiti del possibile quelli che potremmo definire interessi nazionali, la propria parte di quella sovranità condivisa bisognerebbe esercitarla. L’Italia non lo fa, o lo fa molto poco. Decisamente meno della organizzatissima Germania, della Francia, della Spagna e anche dell’euroscettica Inghilterra, che a Londra contesta Bruxelles e a Bruxelles difende molto efficacemente gli interessi di Londra.
A Roma tira un’altra aria. L’Europa della quale quotidianamente ci occupiamo e preoccupiamo è quelle delle pagelle sui conti pubblici e dei parametri da rispettare e semmai dei fondi europei - quando ci riesce (poco) - da utilizzare. Sul resto, silenzio. Intanto però quelle regole corrono e valgono anche per noi. I due terzi dei provvedimenti varati dal parlamento italiano sono la trasposizione, spesso tardiva e talvolta malfatta (abbiamo il record delle procedure di infrazione: 117), di decisioni prese a Bruxelles e a Strasburgo, non contro di noi ma troppo spesso senza di noi (o senza una nostra posizione da difendere). Quello che è successo il 14 gennaio scorso durante la seduta plenaria del Parlamento Europeo che ha approvato la nuova Direttiva sugli appalti (che ora deve essere recepita dall’Italia) non è esemplare ma assai significativo. Prende la parola il segretario della Lega nonché parlamentare europeo Matteo Salvini, il quale attacca il provvedimento definendolo ’aria’ e aggiungendo che non rispetta gli interessi delle piccole aziende del territorio. Fin qui tutto normale, la critica è sempre legittima. E’ subito dopo che il quadro si definisce, quando chiede la parola l’europarlamentare belga Marc Tarabella, relatore del provvedimento che, evidentemente, non ce l’ha fatta più: ’Collega Salvini, è una vergogna sentirvi in Aula, perché per un anno e mezzo abbiamo lavorato con gli altri colleghi e sei l’unico che non abbiamo mai visto in riunione...’.
In realtà tra gli europarlamentari italiani Salvini non è stato dei meno attivi nella passata legislatura, né ci sono stati altri (italiani) che abbiano seguito quell’importantissima direttiva, ma ci sono due lezioni da trarre: la prima è che se non si può seguire tutto, sui dossier importanti ci si deve essere, la seconda è che ci si deve essere dall’inizio perché quando un provvedimento arriva al voto dell’aula i giochi sono fatti.
L’inizio in genere è molto lontano e il percorso per arrivare al voto finale molto complesso. Ma anche molto aperto. La Commissione, da cui tutto parte, attiva gruppi di esperti, ascolta gli stakeholders, pubblica libri bianchi e costituisce specifici comitati composti da funzionari inviati a Bruxelles dai paesi membri per scrivere il testo che, se la Commissione lo fa proprio, passa al Consiglio. Dove un’altra serie di comitati, composti sempre da funzionari inviati dai paesi membri, elaborano ancora fino alla valutazione del cosiddetto Coreper, il Comitato dei rappresentanti permanenti. Se il Coreper dà il via libera il passaggio in Consiglio sarà solo formale, se ci sono questioni politiche aperte invece spetterà ai ministri la parola definitiva. Semidefinitiva in realtà, perché il testo passa al Parlamento di Strasburgo, dove viene esaminato ed eventualmente modificato dalle commissioni e infine votato dall’aula. Molta strada a questo punto è fatta, ma il percorso non è finito, perché quei provvedimenti devono essere assorbiti nelle legislazioni nazionali mentre i cosiddetti ’comitati di comitologia’ composti anch’essi dai funzionari inviati dai paesi membri e coordinati da un funzionario della Commissione, definiscono i dettagli tecnici.
E’ una giungla assai intricata. Solo i comitati di comitologia sono oltre 260, tra gruppi di lavoro, di esperti e di altra natura si arriva a superare ampiamente il migliaio. Il segreto, per influenzare questi processi è molto semplice: esserci. Essere nelle strutture tecniche della Commissione e del Consiglio, essere nei gruppi di esperti e nei comitati di comitologia, essere presenti alle riunioni dei tecnici che preparano il Consiglio dei ministri Ue, essere attivi in Parlamento seguendo i dossier.
«A Parigi - spiega Massimo Balducci, docente di scienze politiche all’Università di Firenze - in ogni ministero c’è un Monsieur Europe, che siede nel gabinetto del ministro e coordina tutti i dossier europei di quel ministero e i funzionari che se ne occupano. A coordinare loro c’è un Segretario Generale, che siede nel gabinetto del presidente del Consiglio e che ha oltre 200 funzionari nella sua struttura. A Londra la cosa è affidata al Foreign Office, che adotta un sistema diverso ma altrettanto efficace e che ha messo su una piattaforma condivisa tutti i dossier europei con i nomi di chi li segue». In Germania non sono da meno, lì il coordinamento è affidato al Bundesrat, e presenti assiduamente ed efficacemente sono anche la Spagna e molti paesi di minori dimensioni. Ciascuno di questi paesi ha allevato in patria e a Bruxelles funzionari specializzati ed esercita un coordinamento all’interno delle amministrazioni rafforzato da uno stretto raccordo del governo con gli europarlamentari di maggioranza e di opposizione che indistintamente seguono gli interessi del loro paese.
E l’Italia? Latita. C’è una legge del 2012 nella quale è scritto che ogni ministero deve dotarsi di un nucleo di valutazione e di un responsabile per coordinare gli affari europei di pertinenza. Nessuna sorpresa, quei nuclei non sono mai stati creati. La ragione è ovvia, sarebbe stato un nuovo centro di potere che avrebbe potuto mettere il naso pressoché dappertutto e avrebbe dato fastidio a capi di gabinetto e direttori generali. Quindi ogni direzione fa per sé e la mano destra non sa cosa fa la mano sinistra. La stessa legge prevede un coordinamento centrale affidato a un comitato interministeriale, il Ciae (Comitato interministeriale affari europei) supportato da un comitato di valutazione e da una segreteria incardinati all’interno del Dipartimento di Palazzo Chigi per gli affari europei. Anche qui nessuna sorpresa, il Ciae si è riunito una sola volta, poche settimane fa, mentre il Dipartimento - la cui guida è stata affidata dal governo Renzi a Diana Agosti (moglie di Antonio Catricalà, sottosegretario alla presidenza del Consiglio durante il governo Monti) che è stata responsabile del coordinamento amministrativo di Palazzo Chigi e che nella sua brillante carriera si è occupata assai di personale ma per nulla di Europa - con il suo esiguo e non sempre specializzato personale fa assai fatica a seguire il processo normativo europeo, la trasposizione delle norme in Italia, la loro applicazione, le procedure di infrazione e solo a volte, molto poche, riesce a mettere intorno a un tavolo i vari ministeri interessati a singoli dossier e a definire una posizione nazionale unitaria. Nei fatti, nella costruzione delle norme e delle dettagliate regole che a Bruxelles vengono elaborate per la loro applicazione, una politica europea unitaria l’Italia non ce l’ha.
Il problema dei funzionari romani mandati ai comitati e ai gruppi di lavoro di Bruxelles senza sapere le lingue o in gita premio sembra essere stato superato (non in tutti i ministeri). Oggi vanno a Bruxelles funzionari spesso (non sempre) preparati e plurilingui, anche se accade ancora che a riunioni importanti da Roma non arrivi nessuno perché non c’erano i fondi per la missione, oppure che partecipi solo a metà della riunione per rientrare in serata perché il ministero non può pagare la notte in albergo.
Ma il problema più grave è che dietro questi funzionari, quando arrivano, e anche quando sono preparati, non c’è una politica nazionale, non c’è una visione chiara degli interessi da difendere, non c’è la costruzione delle alleanze necessarie per condurre in porto i propri progetti. E non c’è quasi mai un coordinamento. «Invece - dice Roberto Adam, per molti anni consigliere giuridico della Rappresentanza permanente a Bruxelles e poi capo del Dipartimento per gli affari europei a Palazzo Chigi - il coordinamento è essenziale, perché a Bruxelles non si può andare ognuno per conto suo, né ci si può accorgere che l’Italia ha uno specifico interesse in un certo dossier quando i giochi sono fatti. Il coordinamento è indispensabile per presentarsi con una posizione unitaria su ciascun dossier, per darsi delle priorità e per mettere sul tavolo quello su cui si può convenire o cedere per costruirsi le alleanze necessarie per ottenere quello che è considerato più importante».
Sono infiniti (ricordate le quote latte, tornate questi giorni di attualità?) i casi in cui interessi italiani rilevanti sono stati danneggiati non dalla cattiveria dei funzionari della Commissione o dall’arroganza degli altri paesi (che peraltro non manca) ma dal fatto che ci se n’è accorti troppo tardi per incidere, o che non hanno ricevuto la giusta attenzione a Roma. O perché si sono fatte battaglie sbagliate. Sul brevetto europeo per esempio, quando si è scelto di difendere la lingua italiana senza costruire bene il progetto, ad un tempo abbiamo ottenuto di perdere la possibilità di avere uno dei tribunali europei dei brevetti a Milano e di rimanere fuori, insieme alla Spagna, dalla cooperazione rafforzata sul brevetto europeo che va avanti con gli altri 25 paesi dell’Unione. O come nella sacrosanta battaglia per il ’made in’, che dovrebbe identificare l’origine dei prodotti, approvato dal Parlamento europeo ma bloccato in Consiglio dall’opposizione della Germania e di altri paesi nordici, ai quali evidentemente non siamo riusciti a trovare qualcosa da offrire in cambio. Oppure, in queste settimane, nella tardiva scoperta della pericolosità della etichettatura a ’semaforo’ sulla salubrità dei prodotti alimentari, con i paesi nordici e per primo il Regno Unito che vogliono mettere un bollino verde su quelli da loro ritenuti sani, giallo su quelli medi e rosso su quelli ritenuti pericolosi. E il rosso finirebbe sull’olio d’oliva, sui formaggi, sulle mozzarelle, sul prosciutto, sulla Nutella, con danni enormi per i produttori italiani (ma anche francesi, greci, spagnoli, con i quali si dovrebbe costruire rapidamente un’alleanza).
Forse il semestre della presidenza italiana riuscirà a rendere un po’ meno ’stupidi’ i parametri di Maastricht, certamente è un’occasione d’oro per imparare a contare in quello che si fa giorno dopo giorno. Per il successo della festa la cucina spesso conta più del salotto. La sede della Commissione Europea a Bruxelles, alla quale è affidata la proposta delle nuove regole