Francesca Paci, La Stampa 16/7/2014, 16 luglio 2014
MA I JIHADISTI GUADAGNANO CONSENSI
Lunedì, poco dopo l’annuncio dell’iniziativa egiziana per il cessate il fuoco, Hamas faceva sapere di aver parecchie riserve ma di volerci pensare su. Poche ore dopo, a tregua stracciata, il suo braccio armato tuonava di non essere stato neppure consultato dal Cairo. Chi decide cosa a Gaza e con quale peso? Secondo un recente studio del Watan Center for Studies and Research negli ultimi tre anni la popolarità di Hamas (23,3%) è calata a vantaggio della crescita dei rivali della Jihad Islamica, la costola dei Fratelli Musulmani egiziani staccatasi alla fine degli Anni 70 per avvicinarsi al più radicale Iran passata dall’1% del 2010 al 13,5% attuale.
Hamas paga il prezzo di governare (solo il 6,5% ritiene che negoziare sia la via migliore per emancipare i palestinesi), ma c’è di più. All’indomani delle primavere arabe e del successo dei partiti islamisti Hamas, peccando di hybris, ha puntato tutto sui Fratelli Musulmani e i loro sponsor di Ankara e Doha alienandosi i vecchi amici siriani, libanesi, iraniani. Un isolamento di cui hanno approfittato la Jihad Islamica, i Comitati di Resistenza Popolare nati nel 2000 da una milizia di Fatah e gli altri gruppi radicali presenti a Gaza dal 2006 e sempre più critici verso la «moderazione» di Hamas (i militanti sono giovani e spesso fuoriusciti di Hamas e Fatah delusi perché Hamas non garantisce né benessere alla gente né sfida Israele).
La storia inizia nel 2007, quando dopo la cacciata di Fatah Hamas impone il suo controllo su Gaza alternando la cooperazione all’antagonismo nei confronti dei rivali interni (poco dopo la presa del potere riesce a liberare il giornalista della Bbc Alan Johnston rapito 4 mesi prima dagli ex alleati dell’Esercito dell’Islam diventati poi il ramo qaedista dei palestinesi). Per quanto Hamas la spacci come un successo l’offensiva israeliana della fine del 2009 è una mazzata perché distrugge le armi e i tunnel al confine con l’Egitto da cui Hamas trae profitto e consenso. Passano 8 mesi e la tensione con i nemici islamisti monta: ad agosto le forze di sicurezza di Hamas attaccano la moschea Ibn Taymiyyah a Rafah in Rafah uccidendo lo sceicco salafita-jihadista Abdel-Latif Moussa più decine dei suoi. Nel 2011 un blitz di Hamas non riesce ad impedire che i salafiti-qaedisti guidati dal carcere dallo sceicco al-Maqdasi uccidano l’attivista italiano Vittorio Arrigoni. Da quel momento è muro contro muro fino al 2012 con Hamas che, sponsorizzato da Morsi, firma la tregua con Israele in barba alle proteste degli avversari in lotta per il cuore e le menti dei gaziani allo stremo. La Jihad Islamica in particolare, circa 5mila uomini contro i 20mila di Hamas ma ben accessoriati anche grazie all’Iran, se la lega al dito.
Quando nel 2013 Morsi viene deposto dall’esercito egiziano e il Cairo dichiara guerra ad Hamas distruggendogli i tunnel rimasti inizia la battaglia per Gaza (Hamas non può più pagare gli stipendi). Da allora i Comitati di Resistenza Popolare denunciano l’arresto di decine dei loro mentre altrettanti membri della Jihad Islamica vengono bloccati nel tentativo di sparare razzi verso Israele e rompere la tregua. Cinque mesi fa la Jihad riesce a lanciare 130 razzi oltre il confine ma pare che, in quel caso, sia stato Hamas a chiudere un occhio per suggerire al presidente egiziano Al Sisi come sarebbe Gaza senza Hamas. In questa luce andrebbe letta anche la riconciliazione di aprile con l’Autorità Nazionale.
È tardi? Il Cairo, come provano le ultime ore, non si fida. Anche perché intanto, tra lusinghe e minacce, Hamas flirta con i fondamentalisti di Ansar Bayt al-Maqdis contro cui l’esercito egiziano è in guerra nel Sinai.