Sebastiano Vernazza, La Gazzetta dello Sport 16/7/2014, 16 luglio 2014
I RECORD A RAFFICA E DUE AMAREZZE: I 4 MESI DI SQUALIFICA E L’EUROPA STREGATA
Storia di un grande amore, ma gli amori attraversano crisi, si consumano e finiscono. Antonio Conte lascia un’altra volta la Juve. Non è la prima volta, forse non sarà l’ultima, di sicuro è la più fragorosa.
Origini Lecce anni Settanta, Antonio Conte figlio di Cosimino è bravo a giocare a pallone. Papà fa il noleggiatore di automobili e nel tempo libero si dedica alla squadra di sua proprietà, la Juventina Lecce. Nomen omen. E’ tutto già scritto. A dieci anni Antonio spedisce a un giornale, per un concorso, il disegno di Roberto Bettega. La Juventina gli sta presto stretta, il ragazzo passa al Lecce. Eugenio Fascetti lo fa debuttare in Serie A nel 1986 e cinque anni più tardi la Juve se lo porta via. Succede nell’autunno del ’91, all’epoca il mercato aveva la sessione autunnale e non invernale. A casa Conte squilla il telefono, risponde mamma Ada, sarta: «Buongiorno signora, sono Giampiero Boniperti». Timide obiezioni, pronte rassicurazioni: «Signora, stia tranquilla. Antonio a Torino troverà un’altra famiglia».
Prima parte Alla Juve comincia con Giovanni Trapattoni allenatore e ci mette poco a conquistarlo. E’ il tipico mediano che piace un sacco al Trap. Il giovane Conte parla poco, è intimidito da Roberto Baggio e per i primi tempi al mister dà del «voi» perché a Lecce, dalle sue parti, si usa così. Conte decolla e con l’arrivo di Marcello Lippi miete successi. Vince tutto: scudetti a raffica, la Champions e l’Intercontinentale. In Nazionale il suo modo di intendere il calcio è altamente compatibile con le idee di Arrigo Sacchi. In bianconero vince e rivince. Tredici stagioni dense e intense, cinque con fascia di capitano al braccio. Smette nel 2004, si piglia un anno sabbatico per studiare da allenatore e nell’estate del 2005 firma col Siena, va in Toscana per fare apprendistato da allenatore come vice di Gigi De Canio. La stagione successiva si mette in proprio. Comincia la scalata: Arezzo, Bari, Atalanta, di nuovo Siena. Non c’è sempre il sole. A Bergamo lo cacciano: i risultati sono una scusa, il motivo vero sono i litigi con Cristiano Doni, capataz locale. Il ritorno alla Juve è mera questione di tempo, è fisiologico, scolpito nella pietra. Di fronte alla delusione per l’annata no di Gigi Del Neri, non esiste alternativa: Andrea Agnelli punta dritto su Antonio Conte. La sua juventinità è certificata, i tifosi - ustionati da Calciopoli - non chiedono né vogliono altro. Conte deve essere e Conte sia.
Imbattuto Va come deve andare, la Juve azzanna lo scudetto. Il primo dopo il grande scandalo, il primo allo Stadium. Rinascita, ripartenza. Non è un successo qualsiasi, è il titolo della liberazione: la Juve chiude la traversata del deserto e si riappropria del suo status. La Signora è tornata perché Conte l’ha fatta tornare. Zero sconfitte. In Serie A l’imbattibilità è stata privilegio di pochi: il Perugia di Castagner, stagione 1978-79; il Milan «capelliano» degli Invincibili, stagione 1991-92. La Juve «contiana» entra nel ristretto club. Descritto come un integralista del 4-4-2 o 4-2-4, Conte ha l’intelligenza di adattarsi ai suoi giocatori e passa al 3-5-2, il che gli permette di proteggere pensieri e parole del nuovo arrivato Andrea Pirlo. In Italia la difesa a tre/ cinque basta e avanza per dominare. In Europa è più difficile e l’allenatore lo sperimenterà sulla propria pelle nell’annata successiva, quando la Juve sarà spazzata via dal Bayern nei quarti di Champions. Prima di arrivare lì, alle magnifiche otto d’Europa, Conte finisce però sulla colonna infame del calcio scommesse.
Squalifica Conte è uscito indenne da Calciopoli. Anzi, non ci è entrato, dalla Juve se ne è andato due anni prima che il sistema Moggi venisse sgominato. Conte, però, resta invischiato nella melma dell’ennesima Scommessopoli, quella del 2012. Lo tirano in ballo i pentiti. Uno in particolare, Filippo Carobbio, suo ex giocatore al Siena. Carobbio mette a verbale quanto segue: «Ci fu un accordo per far finire Novara-Siena (dell’aprile 2011, ndr) in parità. Ne parlammo anche durante la riunione tecnica. Lo stesso allenatore, Antonio Conte, ci rappresentò che potevamo stare tranquilli in quanto avevamo già raggiunto l’accordo con il Novara per il pareggio. L’accordo è stato comunicato a tutti». Alla fine dei vari procedimenti di giustizia sportiva, a Conte resta il cerino in mano: quattro mesi di squalifica per omessa denuncia e una multa per la conferenza stampa del 23 agosto 2012, passata alla storia per la veemenza dei toni. «Il signor Carobbio - dice Conte quel giorno - per la Procura di Cremona è un bugiardo non credibile. Per la Procura Federale una persona altamente credibile. Conte invece non è credibile. La credibilità io credo che uno la ottenga nell’arco di una vita, non giorno per giorno. Io penso di aver ottenuto grande credibilità nella mia vita, a differenza di chi si è venduto le partite, la sua famiglia e i suoi compagni da tre anni a questa parte. Ma alla fine io sono passato come quello poco credibile. Io, innocente, ho dovuto patteggiare. Ma per cosa? Un ricatto bello e buono da parte di questa giustizia. È una vergogna. Ho paura, bisogna aver paura. E ai miei colleghi, ai calciatori, dico: oggi è successo a me e a tanti altri, domani può accadere a loro. Perché io? L’unica cosa che è cambiata nella mia vita negli ultimi tempi è che sono diventato allenatore della Juventus che dopo due settimi posti era diventata simpatica a tutti. Poi d’incanto abbiamo vinto e siamo tornati ad essere antipatici». La sindrome dell’accerchiamento funziona. Certe crepe cominciano a intravedersi, ma la Juve si ricompatta attorno al suo allenatore, fino a dicembre costretto a seguire le partite dall’alto della tribuna. Lunga cavalcata in solitaria, secondo scudetto di fila . Niente imbattibilità, però, e la batosta col Bayern in Champions accende una lucina rossa: per competere in Europa serve di più. Da qui il tira e molla della primavera-estate 2013. Conte se ne va, Conte rimane. M’ama o non m’ama? Si amano ancora, Conte continua, ma nulla è più come prima. Arriva lo scudetto dei record, 102 punti e 19 vittorie su 19 partite in casa. Terzo titolo di fila, roba che per trovare qualcosa di simile bisogna risalire alla famosa Juve del quinquennio 1930-1935. A Conte però la storia non basta, lui ha fame di presente e di futuro. Vuole che gli comprino giocatori, non che gli vendano i migliori. Vuole prendersi l’Europa che conta, uscire col Galatasaray nella prima fase di Champions è stata una bastonata, idem l’eliminazione in semifinale di Europa League. Vuole e chiede, ma non lo ascoltano e si dimette a metà luglio, e la scelta del tempo è l’unica mancanza che gli si può addebitare. Non si lascia una Signora a ballo appena cominciato.