Francesco Guerrera, La Stampa 16/7/2014, 16 luglio 2014
IL NUOVO PANICO CHE SPAVENTA I MERCATI
La storia si ripete o fa semplicemente rima con se stessa? Sarebbe piaciuta a Mark Twain, autore del famoso aforisma, la situazione dell’economia europea e del suo sistema bancario. A quasi sei anni dal crollo di Lehman Brothers, che esacerbò la crisi finanziaria più devastante del dopoguerra, investitori grandi e piccoli sono ritornati a guardare con ansia alla salute di una banca.
Questa volta, però, l’epicentro del terremoto non è a Manhattan ma a Lisbona. Non a Times Square, la vecchia sede della Lehman, ma a Avenida da Libertade, il quartier general del Banco Espirito Santo.
Poco importa. I problemi complessi, oscuri e non facilmente risolvibili della banca portoghese sono subito fuoriusciti dai confini nazionali.
Giovedì scorso, la sonnolenza estiva nei mercati è stata rimpiazzata da un dramma classico: le azioni delle borse europee, Milano inclusa, sono andate in caduta libera, le obbligazioni «sicure» quali i buoni del tesoro americano e tedesco sono immediatamente cresciute mentre i prezzi di altri beni-salvezza, come l’oro, sono saliti.
Società di mezzo mondo, dai costruttori spagnoli alla Rottapharm di Monza, sono state costrette a posticipare o ridimensionare operazioni di mercato perché gli acquirenti erano in fuga. I mercati azionari ora sembrano più calmi ma i nervi degli investitori rimangono tesissimi. Venerdì una delle mie fonti mi ha detto che una società africana e una banca della Mongolia non sono riuscite a vendere azioni e obbligazioni a causa dello Espirito Santo.
Come può una banca portoghese, grande ma non enorme, seminare panico in mercati mondiali da Milano a Ulan Bator?
La paura che aleggia nelle menti degli investitori l’ha spiegata Nick Lawson al Wall Street Journal: «È il ritorno delle memorie del 2011», ha detto il trader di Deutsche Bank.
Per chi non se le ricorda, quelle non sono memorie belle, da mettere su Instagram e raccontare su WhatsApp. I souvenir di tre anni fa sono una crisi del debito europeo nei cosiddetti paesi della periferia – Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e, ahimè, Italia – che fece pensare al ritorno delle sciagure del 2008.
Ci furono mesi interi in cui politici, mercati e gente comune rimasero incollati ai numeri dello «spread». Governi caddero, molti investitori persero soldi e la ripresa già anemica del continente fu messa in terapia intensiva dalla Banca Centrale Europea.
La logica direbbe che non c’è motivo di pensare che i problemi, forse di contabilità, forse di capitale, di una banca di Lisbona possano contagiare i beni del tesoro o addirittura l’economia europea.
Attenzione però al contesto. La differenza-chiave tra oggi e il 2011 paventata da Lawson e colleghi è che i mercati europei sono stati in grandissima ripresa.
Un anno fa, la Spagna era costretta a offrire un tasso d’interesse di quasi il 5% per riuscire a vendere il debito made-in-Madrid. Con tassi così elevati, soprattutto se paragonati ai rendimenti striminziti di altri investimenti, gli investitori non si fecero pregare e la Spagna, l’Italia e persino la Grecia riuscirono a uscire dalla crisi.
All’inizio di luglio, i tassi spagnoli erano al 2,65%, poco più del debito venduto dalla Germania, paese molto più solido e non solo a livello calcistico. Numeri così bassi non sono abbastanza per persuadere gli investitori a rischiare soldi su economie che comunque rimangono deboli, incerte e senza molte prospettive a lungo termine.
Questo fragile terreno è stato reso quasi impraticabile dai macelli del Banco Espirito Santo. I mercati sono come una di quelle docce esasperanti dove la differenza tra acqua troppo calda e troppo fredda è minuscola: nella psiche degli investitori ci vuole niente per passare dalla gioia al dolore. Il motivo può essere qualsiasi cosa: da un commento di un banchiere centrale a un dato economico a una banca portoghese che, nonostante il nome, non è in odore di santità.
Ci sono altri fattori. La famosa «unione bancaria» del continente europeo ancora non esiste e i peccati dello Espirito Santo hanno messo in luce i problemi annosi di un settore finanziario unito da una moneta unica ma diviso da regole, prassi e leggi ancora molto nazionali.
E gli investitori americani sono stati molto attivi nelle banche del continente, comprando azioni e obbligazioni soprattutto nei paesi «periferici». Non è una sorpresa che si mettano a ridurre le loro posizioni quando le notizie provenienti dal Sud-Europa non sono buone.
Siamo a un bivio.
La mini-crisi scoppiata a Lisbona potrebbe scemare nei prossimi giorni se il governo portoghese riesce a contenere la situazione e i mercati ritrovano la calma. O potrebbe trasformarsi in una maxi-crisi, riportando a galla tutti i dubbi sulla ripresa economica della zona-euro, la stabilità del sistema bancario e l’inefficienza cronica dei politici.
Purtroppo, la scelta non è nelle mani dei governi e nemmeno della Bce di Mario Draghi ma nelle menti imprevedibili dei signori (e signore) del mercato. Speriamo che si convincano non solo che la storia non si ripete ma che non rima nemmeno con se stessa.