Marino Longoni, MilanoFinanza 16/7/2014, 16 luglio 2014
CON I SOLI ALGORITMI NON SI VA CERTO LONTANO
Dal 2007, anno di inizio della crisi, a oggi il 16% delle pmi italiane, quelle con fatturato tra i 5 e i 50 milioni di euro, hanno chiuso i battenti. Erano 55.700 nel 2007, a fine 2013 ne sono rimaste attive 46.800. La causa principale del fallimento o di altre procedure concorsuali di queste realtà produttive è la mancanza di liquidità, che può essere fatta risalire a vari fattori tra loro intrecciati: la crisi finanziaria internazionale, l’aumento continuo della pressione fiscale, la stagnazione dei consumi, i tempi di pagamento della Pubblica amministrazione, non ultima la politica di concessione del credito, sempre più fondata su freddi algoritmi, piuttosto che sulla conoscenza diretta, storica, della realtà aziendale.
La buona notizia è che seppure in gravissimo ritardo, tali cause cominciano a essere identificate con precisione e, seppure troppo lentamente, si cominciano ad approntare i primi rimedi concreti. Per esempio, nel corso dello stesso convegno che ha rivelato i dati della ricerca dello Sda Bocconi sulla mortalità aziendale, gli stessi banchieri presenti, in rappresentanza delle più importanti istituzioni creditizie del Paese, hanno riconosciuto la necessità di ripensare il rapporto banca-impresa abbandonando gli algoritmi basati sui principi contabili internazionali, che negli ultimi anni l’hanno fatta da padrone, per riportare in primo piano la conoscenza della realtà aziendale: senza questa inversione di tendenza non sarà possibile finanziare un’eventuale ripresa.
A parole sembrano essere tutti d’accordo, anche nelle istituzioni comunitarie si sentono sempre più spesso echi di queste posizioni, vedremo quanto bisognerà aspettare per vedere dei fatti. A proposito di lentezze burocratiche. È da due anni che i governi in carica promettono di ridurre i debiti della Pa verso le imprese rendendo possibile, e conveniente, la cessione del credito alle banche. Solo una settimana fa il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha firmato il provvedimento che rende possibile lo smobilizzo di questi crediti a un costo tra l’1,6 e l’1,9%. Una perdita piuttosto modesta per le imprese che, per sfruttare questa opportunità, devono però far certificare i loro crediti allo stesso ente pubblico debitore. Nella speranza di non incappare in qualcuno che gli mette i bastoni tra le ruote. Nell’attesa che fossero definite queste procedure, si sono persi più di 100 mila posti di lavoro.
Un altro barlume di speranza viene dal recentissimo regolamento europeo sugli aiuti di Stato alle imprese, entrato in vigore il 1° luglio di quest’anno che ha in molti casi allargato le maglie di questo tipo di agevolazioni, anche qui con l’obiettivo di far pervenire un maggior flusso di liquidità alle imprese europee, soprattutto a quelle virtuose. Una delle modifiche più importanti è infatti quella che chiude i rubinetti dei finanziamenti alle imprese che delocalizzano, cioè spostano la sede in un altro Paese alla ricerca di migliori condizioni legate, per esempio, a un minor costo del lavoro. Qualche anno fa la delocalizzazione era addirittura incentivata, ora ci si sta accorgendo che la desertificazione produttiva mette a rischio anche i Paesi dalle più forti tradizioni industriali. Meglio tardi che mai.