Filippo Facci, Libero 16/7/2014, 16 luglio 2014
SIAMO SEMPRE PIÙ POVERI MA ALMENO CI ABITUEREMO
Aumentano i poveri veri che un tempo quasi non esistevano e il Paese arretra nel suo complesso, ma per il resto i dati dell’Istat offrono il fianco a letture di parte, as usual. Non si converge neppure sui numeri: la povertà assoluta secondo il Corriere è al 7,9%, secondo il Sole al 9,9 e secondo l’Unità all’8. Di certo è ai massimi, anche se è vero che viene rilevata solo dal 2005. La grande novità però resta questa, la povertà vera. La stratificazione sociale, invece, rimane sostanzialmente immutata checché ne scrivano: e però sta anche maturando una robusta neo classe di «poveri» ben conosciuta nel mondo anglosassone ma in passato sconosciuta a noi. I poveri veri sono raddoppiati in quattro anni (sono 1 su 10) anche se le differenze tra povertà relativa e povertà assoluta non vanno mai dimenticate. Povertà relativa è quella degli indigenti, cioè quelli che secondo l’Istat non riescono «ad acquistare beni e servizi considerati essenziali» e che in un mese spendono meno di 972 euro, la media italiana: sono in 10 milioni, e l’anno passato sono aumentati di mezzo milione di unità. Povertà assoluta, invece, è quella dei poveri veri, quelli che non hanno da mangiare. Per il resto, complessivamente, siamo sempre lo stesso Paese. Su l’Unità Nicola Cacace scriveva di «due Italie sempre più lontane» e di «diseguaglianze crescenti cui è difficile porre riparo», ma messa così è una balla, soprattutto quando aggiunge che Renzi sta provando a risolvere i problemi «coi tetti agli stipendi degli alti dirigenti e con gli ottanta euro ai dipendenti». Ma l’Unità dimentica che i famosi 80 euro sono riservati solo ai dipendenti con redditi medio-bassi, non ai poveri, poiché solo il 20% di questi poveri è raggiunto dal bonus. I dati analizzati da lavoce.info e da economisti come Tito Boeri e Andrea Brandolini spiegano questo e altro. E spiegano, per esempio, che durante la crisi le disuguaglianze non sono aumentate per niente: è scivolata in basso l’intera catena dei redditi, ma i rapporti sono rimasti gli stessi, è tutto più o meno come prima della crisi. Ad aumentare e stata solo la povertà assoluta, e non è un dettaglio da poco. Che fare? L’Unità invita a rivolgersi alla ricchezza anziché ai redditi, vecchio pallino di Giuliano Amato. Per esempio: una bella aliquota dello 0,5% ai possessori di una ricchezza che superi i due milioni di euro. Già, ma quanti sono? Sono tanti, tantissimi, in Italia. Quanto a ricchezza pro capite (rendite comprese) siamo uno dei Paesi più ricchi del mondo.
Tutto il resto lo sappiamo: pensioni e stipendi sono sostanzialmente fermi, manca il lavoro, aumenta la disoccupazione e anche il part time. Il reddito medio particolare che ha notato solo Tito Boeri è calato del 13 per cento in 6 anni, ma i pensionati ai quali i sindacati vorrebbero estendere il bonus renziano da 80 euro in proporzione hanno registrato un calo soltanto del 9 per cento, cioè inferiore a quello dell’italiano medio. Non solo. Perlomeno nella prima fase della crisi, i pensionati sono gli unici i cui redditi sono mediamente aumentati, perlomeno nella fascia sopra i 65 anni.
Poi c’è il romanzo della classe media, quella che non esiste più perché semplicemente vi apparteniamo tutti. La quota di reddito nazionale della classe media (calcolata escludendo il 20% più ricco e il 20% più povero) non è cambiato dal 1985, e, semmai, il numero di appartenenti alla classe media è solo aumentato. «È illusorio pensare di costruirsi le proprie fortune elettorali con trasferimenti alla classe media: si tratta di più di 34 milioni di persone... nessun governo potrà mai attuare trasferimenti sufficientemente grandi per essere percepiti». Così Boeri su Repubblica. È chiaro che a patire di più siano i nuclei familiari con più figli niente di nuovo anche qui e quelli del Sud in cui l’istruzione è medio-bassa. Aumentano gli anziani indigenti (7%) ma anche perché aumentano gli anziani in generale. Più che di ceto medio, in concreto, dovremmo parlare di ceto unico: persino il movimento dei forconi ammiccava al ceto medio, che secondo il Censis il dato è di un paio d’anni fa costituisce l’80% degli italiani.
Poi ci sono i poveri veri, appunto. Michele Serra, ancora su Repubblica, ha rivolto un’implicita critica alla «società di mercato» (l’ex capitalismo) e ritiene inevitabile che gli esclusi si metteranno in moto per presentare il conto. Rivoluzione? Antagonismi? Cambiamenti dal basso? «Una cosa sola ci sembra impossibile: che niente accada, e ognuno accetti il proprio destino senza fiatare... Più di una rivoluzione o di rivolte sparse e assortite, fa paura l’idea di una muta, infinita depressione che assecondi un infinito declino». L’impossibile che spaventa Serra, purtroppo, ha un che di probabile: la storia sociale degli ultimi decenni lo dimostra. Il sentiero verso il quale sono incamminate tutte le italiette del mondo e non ce ne sono altri, di sentieri sembra portare alle esperienze di Paesi cosiddetti più evoluti, laddove si è cristallizzata una percentuale di povertà e di devianza molto maggiore di quella a cui eravamo abituati. In tutti i Paesi più ricchi, cioè, aumentano i poveri e i carcerati. Piano piano. E senza rivoluzioni.