Pietro Greco, l’Unità 13/7/2014, 13 luglio 2014
SE LA SALUTE NON È PER TUTTI FA SCENDERE IL PIL
Un bambino che nasce oggi in Malawi, sostiene l’Organizzazione Mondiale di Sanità (Oms), ha un’aspettativa di vita di 47 anni. Un bambino che nasce oggi in Italia ha un aspettativa di vita di quasi 83 anni. Una differenza di 26 anni. In Ciad 200 neonati su 1.000 muoiono prima di raggiungere i 5 anni di vita. Nell’Unione Europea la mortalità entro i primi 5 anni di vita è di 13 su 1.000: quindici volte meno che nel Paese africano.
Non c’è dubbio: le differenze di salute tra l’Europa e le aree più povere del mondo sono enormi. Tuttavia le «health inequalities», le disuguaglianza di salute, esistono anche nel Vecchio Continente. E sono piuttosto marcate. La vita media in Romania è di 74 anni, in Ucraina di 71, in Russia, di 69 anni: rispettivamente 9, 12 e 14 in meno che in Italia (o in Svizzera o in Spagna). È evidente: c’è ancora una cortina che, da Stettino a Trieste, taglia in due l’Europa. La cortina della salute.
L’analisi delle differenze di salute tra le nazioni europee ci aiuta a individuare i motivi che le generano. Alcune sono cause, per così dire, materiali. L’aspettativa di vita – un indicatore della salute – tra i paesi dell’Est europeo, per esempio, cresce linearmente con il reddito pro capite. Eppure nei paesi dell’Europa occidentale la vita media sembra essere indipendente dal reddito medio. In Italia e in Spagna, per esempio, la vita media è superiore a quella della Germania o della Svezia e anche del piccolo Lussemburgo nonostante il reddito medio pro capite sia decisamente inferiore. Perché la ricchezza delle nazioni incide molto sulla salute a Est e poco a Ovest? Non è semplice rispondere a questa domanda. Ma un elemento è preso in considerazione da tutti gli analisti: l’esistenza di un sistema sanitario nazionale universalistico o, comunque, di welfare sanitario in grado di assicurare a tutta la popolazione, a prescindere dal reddito, i livelli essenziali di assistenza. È stato dimostrato che il sistema sanitario universalistico fa la differenza, in maniera relativamente indipendente dalla ricchezza di una nazione. Il segreto delle performance sanitarie dell’Italia- che di recente hanno suscitato l’incredulità e anche un po’ di invidia in alcuni osservatori anglosassoni – risiedono proprio nel suo sistema sanitario.
Ma le differenze di salute non sono solo tra gli Stati. Sono anche dentro gli Stati. In Svezia un ragazzo maschio che oggi ha 30 anni vivrà in media fino a 83 anni se ha in tasca la laurea, ma solo 78 anni se ha frequentato solo le scuole dell’obbligo. E una ragazza di 30 anni con la laurea può aspettarsi di vivere fino a 86, mentre se ha alle spalle solo le scuole dell’obbligo non supererà, in media, gli 81 anni. Non è (solo) il titolo di studio e le conseguenti diversità negli stili di vita a regalare cinque anni di vita in più nel Paese scandinavo. È (anche) il fatto che, in genere, una persona laureata ha un reddito più alto e un’occupazione più solida. Una riprova l’abbiamo se consideriamo il fattore lavoro: uno dei più potenti discriminanti sociali della salute. Come ricorda Erio Ziglio, il direttore dell’Ufficio Europeo dell’Oms per gli Investimenti per la Salute e lo Sviluppo, il solo fatto di essere disoccupati raddoppia il rischio di malattia. È dimostrata una forte correlazione tra mancanza di lavoro e alcolismo, cirrosi, ulcera, disordini mentali. Nel pieno della crisi, il numero di suicidi è aumentato del 17% in Grecia e del 13% in Irlanda.
La salute è un diritto. Uno dei diritti fondamentali dell’uomo. E le «health inequalities» sono lì a dimostrarci che questo diritto non è soddisfatto. Non a sufficienza, almeno. Anzi, spesso le disuguaglianze sono frutto di una vera e propria ingiustizia sociale. È per questo che alla Regione Europea dell’Oms le definiscono «health iniquities»: iniquità della salute. Ed è per questo che la Commissione sui Discriminanti Sociali della Salute ha messo nero su bianco che: «l’ingiustizia sociale sta uccidendo persone su grande scala».
EFFETTO CRISI
La disuguaglianze – anzi, le iniquità – della salute non ledono solo i diritti fondamentali dell’uomo. Fanno male anche all’economia. Un rapporto per il Parlamento di Strasburgo sostiene, per esempio, che la differenze in sanità costano ai Paesi europei 233 miliardi di euro: l’1,4% del Prodotto interno lordo (Pil) dell’Unione. Alcune analisi scientifiche mostrano che riducendo del 10% la mortalità per cause cardiocircolatorie, il Pil aumenterebbe dell’1%. E che in un Paese l’aumento di un anno nella vita media determina un aumento del Pil compreso tra il 5 e il 6%. In definitiva, investire in salute conviene. Genera ricchezza. Anzi, genera ricchezza socialmente ed ecologicamente sostenibile.
E qui nasce il problema. In Europa la crisi economica e le politiche di bilancio stanno determinando, un po’ ovunque, tagli alla spesa sanitaria. E la messa in discussione di fatto – talvolta anche in linea di principio – dei sistemi sanitari. È una politica di corto respiro, sostiene l’Oms. In primo luogo perché rischia di farci tornare indietro e di peggiorare lo stato di salute degli europei. È già successo. Poco più di venti anni fa, all’indomani del crollo dell’Urss, il repentino smantellamento del welfare sanitario e la crisi economica di larghi strati della popolazione, provocò una brusca diminuzione della vita media in Russia e in molti altri stati ex sovietici.
L’Organizzazione Mondiale di sanità non si limita alla denuncia e all’elaborazione di scenari possibili. Propone anche delle linee di intervento, contenute nel recente rapporto «Health 2020» e fondate su due obiettivi strategici: continuare a migliorare la salute in Europa e ridurre le iniquità.
Ma Zsuzsanna Jacob, direttore della «Regione Europa» dell’Oms, e i suoi collaboratori sanno che non bastano le analisi e le proposte giuste per realizzarli, quegli obiettivi. Occorre che gli Stati le facciano proprie. E in questo momento in Europa non è facile parlare di nuovi investimenti (ancorché strategici), invece che di tagli. Non è facile con i politici che dirigono i grandi Stati. Ma l’attenzione può accendersi tra i politici delle nazioni più piccole. Per esempio, quelle che hanno meno di un milione di abitanti. In Europa sono otto e l’Oms ha invitato i loro rappresentanti a inizio luglio a San Marino chiedendo di applicare le linee guida di «Health 2020» nei loro piccoli Paesi. Poiché si tratta di idee e di buone pratiche i cui risultati sono misurabili, l’obiettivo è di dimostrare che investire – in risorse finanziarie e in risorse umane – conviene. I rappresentanti degli otto piccoli Paesi hanno accettato la sfida. E si sono ufficialmente impegnati a lavorare in maniera coordinata sui discriminanti sociali della salute, sia rafforzando i rispettivi sistemi sanitari nazionali, sia puntando su politiche di integrazione sociale, sia infine coinvolgendo la popolazione in una nuova politica sanitaria partecipata. Non sappiamo se la sfida verrà portata fino in fondo e otterrà i risultati attesi. Ma intanto è un buon esempio di democrazia della conoscenza e di cittadinanza scientifica applicate in un settore, la sanità, il cui obiettivo è soddisfare un diritto fondamentale dell’uomo e aumentare il benessere dei cittadini.