Michele Farina, Corriere della Sera 15/7/2014, 15 luglio 2014
Non ha pensato a cosa lasciar scritto sulla tomba perché non ci sarà lapide sopra il suo corpo minuto: come il secondo marito Reinhold Cassirer, scomparso nel 2001, l’atea Nadine Gordimer sarà cremata «per l’orrore che il corpo di una persona amata venga mangiato dai vermi»
Non ha pensato a cosa lasciar scritto sulla tomba perché non ci sarà lapide sopra il suo corpo minuto: come il secondo marito Reinhold Cassirer, scomparso nel 2001, l’atea Nadine Gordimer sarà cremata «per l’orrore che il corpo di una persona amata venga mangiato dai vermi». Mentre ne parlava, qualche anno fa nel salotto della sua casa di Johannesburg, la più grande scrittrice sudafricana premio Nobel per la Letteratura nel 1991 sorrideva sotto un mezzobusto scuro di Balzac: «Non è certo lo scrittore che amo di più, ma lo tengo qui, nella mia stanza preferita, perché è un regalo di mio marito». È morta nel sonno, in quella casa di Parktown, al piano di sopra, domenica notte. Aveva 90 anni, lo scorso marzo aveva annunciato pubblicamente di avere un tumore al pancreas e che questo la costringeva ad abbandonare la scrittura dopo 15 romanzi, diversi volumi di racconti e vari saggi (anche se mai un’autobiografia). «Smetterei di scrivere — aveva detto al “Corriere” nel 2009 — soltanto se sentissi di non essere più viva ed efficace». Se n’è andata in una fredda notte di inverno sudafricano, nella stagione in cui sotto i piedi l’erba secca del veld fa un rumore unico e inconfondibile, «una rivelazione a cui non avevo mai fatto caso — ricorda il fotografo sudafricano David Goldblatt, grande amico di Nadine — prima di scoprirlo nei suoi libri». Le minuzie che fanno grandezza: descrivere il suono dell’erba in Sudafrica, o lo scricchiolio di una impalcatura sociale chiamata apartheid. Fuori dalla finestra della sua camera un grande albero di jacaranda «dove non so perché gli uccelli non fanno il nido», accanto a lei i figli Oriane e Hugo, che ieri l’hanno ricordata in un comunicato con queste parole: «Aveva profondamente a cuore il Sudafrica, la sua cultura, il suo popolo, e la lotta ancora in corso per il compimento della sua nuova democrazia». Figlia di un orologiaio-gioielliere emigrato dalla Lituania e di una donna inglese infelice e apprensiva, cresciuta tra le miniere d’oro dell’East Rand di Johannesburg, Nadine Gordimer ha cominciato a scrivere all’età di 9 anni. Il battito di quel cuore troppo veloce (una malformazione poi rivelatasi benigna) che preoccupa sua madre la costringe a lasciare la scuola e la prima passione della danza. La segregazione razziale che sotto gli occhi di Nadine ventenne diventa aberrante e accettato sistema di leggi la porta presto a declinare nei suoi libri (la prima raccolta di racconti, Faccia a faccia , è pubblicata nel 1949) la storia dell’apartheid, dove «i bianchi vivono in mezzo ai neri come in mezzo agli alberi di una foresta», come fossero altro che umani. «Non sono una persona politica per natura — dirà anni più tardi —. Se avessi vissuto altrove non credo che con i miei scritti mi sarei occupata di politica». Altrove la rivoluzionaria «per caso e per necessità» non ha mai pensato di andare, anche negli anni più bui dell’apartheid, lei che vide Nelson Mandela per la prima volta nel 1964 dai banchi dell’aula di tribunale dove il leader dell’Anc fu condannato a morte. Già attiva nel fuorilegge African National Congress, la giovane scrittrice stilò i ritratti degli imputati del Rivonia Trial per sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale. Qualcuno in queste ore ricorda il suo discreto lavoro di editing sul discorso pronunciato da Mandela e passato alla storia: «Sono pronto a morire». Mai pensato all’esilio, come altri intellettuali nauseati dal sistema. Solo una volta ha valutato di trasferirsi in Zambia, prima di rendersi conto «che in quel Paese ero considerata dai miei amici neri un’europea, una straniera. Allora ho capito che solo qui potevo essere ciò che sono: a white african ». Un’«africana bianca» controcorrente, che sceglie di scrivere e battersi per l’uguaglianza nella terra dell’apartheid. Fu Nelson Mandela, sulla strada della riconciliazione, a riconoscere i bianchi come una delle tribù del Sudafrica. Mandela si considerava soprattutto un «patriota africano». Si potrebbe dire la stessa cosa di Nadine Gordimer. Come per l’amico George Bizos, immigrato bambino dalla Grecia con il padre antifascista, avvocato e amico intimo di Madiba. Bizos in questi ultimi anni ha fatto spesso da «cavaliere» alla scrittrice, accompagnandola agli eventi culturali o per le visite a casa Mandela in tarda mattinata all’ora della prima colazione. Fu Bizos a recapitarle uno dei messaggi che Nadine ha conservato più gelosamente, uno scritto clandestino proveniente dalla prigione di Robben Island. Il galeotto più famoso del mondo le scriveva per dirle quanto avesse apprezzato i suoi libri, soffermandosi su uno in particolare, La figlia di Burger , che racconta del prezzo personale che devono pagare le famiglie degli eroi che sacrificano la vita per i loro ideali. Un tema che stava molto cuore a Madiba: nei suoi diari il capo dell’Anc ricorda con dolore e ironia di come abbia dedicato più cure ai pomodori del suo piccolo orto carcerario che alle figlie. Quando il futuro presidente del Sudafrica democratico viene liberato, attraverso Bizos chiede un incontro privato con Nadine. È stata lei a parlarne per la prima volta in uno dei suoi ultimi scritti per il «New Yorker» pubblicato nel dicembre scorso e dedicato a Mandela appena scomparso. Con un pizzico di «vanità letteraria» la scrittrice pensò che lui volesse conversare di letteratura e di impegno politico. E invece l’eroe della lotta all’apartheid vuole parlare con la scrittrice e «compagna» dell’Anc di un dolore personale, uno dei più taglienti della sua vita a detta degli amici. Le confida che sua moglie Winnie, a cui ha pensato in carcere per 28 anni, ha un amante. È una storia che diventerà publica soltanto anni più tardi, all’epoca della loro separazione. Nelson e Nadine che parlano di ferite amorose: a pensarci ora è un’immagine che non svilisce, anzi gratifica la «vanità letteraria» dell’autrice de Un mondo di stranieri e La figlia di Burger , la sua capacità di scolpire nei suoi racconti innanzitutto le storie umane prima che il ritratto «politico» di un mondo o di una società. È questa l’altra faccia (o la faccia più vera) di «Nadine rivoluzionaria», l’intellettuale con tre libri messi all’indice dal regime dell’apartheid, quella che con il marito, nella delicata fase di transizione verso la democrazia, ospiterà nel proprio giardino una serie di riunioni riservate tra emissari del vecchio regime e l’Anc di Mandela. Nelson a disegnare e negoziare il futuro sotto la jacaranda senza nidi di casa Gordimer. Furono quelli gli anni della «grande ubriachezza», l’illusione della «missione conclusa», quando «nessuno di noi — raccontò Gordimer al “Corriere” — poteva immaginare che tra gli eroi della rivoluzione ci fosse qualcuno pronto a svendere gli ideali per tre Mercedes». Nell’epoca del «disincanto» e della corruzione al potere, l’«africana bianca» ha continuato a scrivere e a lottare. Negli ultimi anni si è impegnata per la causa dei malati di Aids-Hiv a lungo negletta dallo stesso Mandela. È andata avanti e indietro dall’Europa, gioito per l’elezione di Barack Obama (anche «perché non è un nero nero ma un mulatto: un segno di integrazione ancora più bello»), tuonato contro la degradazione dell’Anc e la reintroduzione della censura, vagheggiato di votare «per il partito della marijuana». Ha continuato a scrivere a macchina, al mattino (abitudine presa dopo il divorzio dal primo marito dentista, quando era una mamma divorziata e la piccola Oriane andava all’asilo). Come nel suo racconto Sognando i morti , forse si è già ritrovata in quel ristorante cinese con gli amici più cari, gli scomparsi, con Reinhold e con Nelson. Grazie a lei questo «mondo di stranieri» appare meno alieno.