Pietro Veronese, la Repubblica 15/7/2014, 15 luglio 2014
Sedeva nella sala da tè di un delizioso alberghetto sulla Rive gauche parigina, di quelli che in francese vengono detti hotels de charme e in inglese boutique hotels
Sedeva nella sala da tè di un delizioso alberghetto sulla Rive gauche parigina, di quelli che in francese vengono detti hotels de charme e in inglese boutique hotels. Sembrava un posto incongruo per una scrittrice sudafricana fresca di Nobel che era stata in prima linea nella lotta contro la barbarie dell’apartheid, militante di fama, amica personale di Nelson Mandela. Nadine Gordimer — la grande autrice di romanzi e racconti morta ieri a 90 nella sua abitazione di Johannesburg, al termine di una lunga malattia — mi apparve invece la persona giusta al posto giusto. Era una donna molto composta, minuta ed elegante, di un’eleganza niente affatto banale ed anzi snob. Tutto nel suo aspetto sembrava scelto ed armonioso, anche le bellissime rughe del viso. Il look era minimalista, ma non privo di quel certo tocco di classe, non ricordo se fosse il colore sgargiante di un accessorio in seta écru accoppiato all’abito dal tono spento o un gioiello forse etnico che attirava l’occhio. Stava perfettamente a suo agio tra quelle poltroncine damascate. Non era il tipo di persona che mi ero aspettato e ne fui intimidito. Nadine Gordimer era un’eroina, ma un’eroina borghese. Una signora coraggio — oltre ad essere, naturalmente, una grande scrittrice. Apparteneva a una schiera ristrettissima di combattenti in tailleur che hanno segnato la lotta contro l’apartheid sudafricana. Donne senza tentennamenti, che non rinnegarono mai le loro convinzioni e neppure le loro belle dimore, che godettero di privilegi e al tempo stesso li usarono per combatterli. Nobili traditrici. Meriterebbero un piccolo pantheon solo per loro, speciali, uniche come erano. (Peccato che Gordimer rifiuterebbe di entrarvi, essendo a tal punto contraria ad ogni forma di discriminazione da aver rifiutato nel 1998 la candidatura all’Orange Prize, perché assegnato esclusivamente a scrittrici). Donne come Jean Sinclair (1908-1996) e sua figlia Sheena Duncan (1932-2010), fondatrici del Black Sash, organizzazione di resistenza non violenta composta da sole donne. Ruth First (1925-1982), comunista, processata, bandita, esiliata e infine uccisa con un pacco bomba in Mozambico dai servizi segreti dell’apartheid. Helen Suzman (1917-2009), la arguta, tostissima Helen Suzman, per tredici anni unica oppositrice nel Parlamento per soli bianchi di Città del Capo. È a questo straordinario albo d’oro che Nadine Gordimer, classe 1923, volle iscrivere fin da giovanissima il proprio nome. Come la First e la Suzman, nata Gavronsky, era di famiglia ebraica, emigrata dalle Repubbliche baltiche (lettoni i Gordimer e i First, lituani i Gavronsky). Ma lei era una «seconda generazione », venuta al mondo a Springs, una delle tante cittadine minerarie della middle class intorno a Johannesburg. Delle donne del Black Sash avrebbe avuto la forza di dire no; della First la bellezza e l’eleganza — non però spavalda, quasi sfrontata come quella di Ruth; di Helen Suzman il coraggio della solitudine. Ma di suo, di diverso e di più di tutte le altre, aveva il talento della scrittura, spiccato e precoce. Pubblicò a 14 anni il suo primo racconto, una storia per bambini. Un debutto in forma non casuale, perché per tutta la sua vita di scrittrice, malgrado i quindici romanzi, Gordimer considererà la short story il formato narrativo più consono ai nostri tempi. (L’ultimo libro pubblicato da Feltrinelli, il suo editore italiano, è per l’appunto una raccolta di storie brevi scritte tra il 1952 e il 2007, Racconti di una vita). Scrisse moltissimo, un’opera sempre rinnovata, sempre attenta al presente, ma che sempre ripartiva dagli stessi temi: il destino dei singoli intrecciato e determinato dagli avvenimenti collettivi; l’amore, le scelte personali, l’interazione individuale, le passioni disperate o feroci nel contesto della storia, nelle costrizioni della società. Un’opera che i giurati del Nobel, nel 1991, vollero giudicare «di grandissimo beneficio all’umanità » . Quarant’anni prima aveva imboccato la lunga strada della fama, pubblicando il primo di una serie cinquantennale di racconti e saggi sul New Yorker. Cominciò così a formarsi lentamente la sua audience mondiale, privilegio dei grandi scrittori di lingua inglese. Gli anni Sessanta, aperti in Sudafrica dal massacro di Sharpeville e più tardi dal celebre processo di Rivonia — otto ergastoli, tra cui quello a Nelson Mandela — segnarono l’inizio formale del suo impegno politico. Da ragazza si era già legata ai circoli degli scrittori progressisti e mischiata alla sulfurea “Sophiatown Renaissance”, il periodo di grande creatività culturale del più malfamato e vitale quartiere nero di Johannesburg, poi raso al suolo. Adesso, rivoltata dalla feroce repressione del regime segregazionista, entrò a far parte dell’African National Congress, ridotto alla clandestinità. Collaborò al collegio di difesa di Mandela e dei suoi compagni di sventura, guidato da Bram Fisher — altro gi- gante — e da George Bizos. Rivide il testo del più celebre discorso di Mandela, pronunciato davanti ai suoi giudici: «Ho coltivato l’ideale di una società libera e democratica nella quale tutti vivranno in armonia e con uguali opportunità. È un ideale per il quale intendo vivere e che spero di veder realizzato. Ma, se occorre, è un ideale per il quale sono preparato a morire». Cominciò così il cursus honorum della esile e ferrea Nadine Gordimer nel Sudafrica della segregazione razziale. Le prese di posizione, i gesti di protesta. Le manifestazioni silenziose. I discorsi all’estero contro il regime. I militanti nascosti nella sua casa. I romanzi censurati, proibiti, banditi per anni: Il mondo tardoborghese (1966); Un mondo di stranieri ( pubblicato tempo prima, nel 1958); La figlia di Burger (1978); Luglio (1981). Quest’ultimo libro, messo al bando dai censori dell’apartheid, nel Sudafrica multirazziale fu depennato dalle letture scolastiche, perché considerato «profondamente razzista, arrogante e paternalistico». Intanto cresceva la fama della scrittrice. La sua prosa «epica e sontuosa» — ancora la motivazione del Nobel — incontrava il favore dei lettori in tutto il mondo. La Gordimer raccontava di amori tra persone di razze diverse e delle tragedie che ne scaturivano; di famiglie benpensanti costrette ad affidarsi e dipendere da povera gente di colore; di vite irregimentate e borghesi nelle quali il caso fa irrompere passione, disordine, caos, spazzandone via la presunta armonia. Si è arresa solo nelle ultime settimane. A causa del brutto male che ora se l’è portata via, un cancro al pancreas che lei stessa rivelò, a sorpresa, in un’intervista esclusiva rilasciata a Repubblica lo scorso marzo: «Non ho più l’energia, scrivere mi fa star male», disse al telefono, con voce flebile e affaticata. Una voce rimasta però lucida e limpida fino all’ultimo, e che ha dipanato il suo lungo filo per 75 anni — tanti ne sono passati tra il primo racconto e l’ultimo romanzo, che è del 2012. Nadine Gordimer ebbe due matrimoni (il primo durato meno di tre anni, il secondo quasi mezzo secolo) e due figli. Oriane, la maggiore, nata nel 1950, da tempo vive e lavora in Italia.